Il bilancio provvisorio della marcia di domenica parla di sei morti, 49 feriti e centinaia di arresti, tra i quali almeno 10 preti e due suore.
«Maria, madre nostra, vieni a salvare il Paese». È questo l’inno che centinaia di cattolici della Repubblica Democratica del Congo cantavano domenica sfilando per le strade della capitale Kinshasa.
I fedeli hanno marciato sventolando rami di ulivo, Bibbie e crocifissi, percorrendo i due chilometri che separano la parrocchia di Cristo Re da Piazza della Vittoria. Purtroppo, anche questa volta, esercito e polizia hanno risposto con la violenza. È la seconda volta in meno di un mese che i cattolici laici del Comité Laïc de Coordination (Clc) organizzano una manifestazione pacifica per chiedere al presidente in carica, Joseph Kabila, di rispettare gli Accordi di San Silvestro, firmati il 31 dicembre 2016 con la fondamentale mediazione della Chiesa cattolica, e indire nuove elezioni. Il presidente infatti, al termine del suo secondo mandato nel 2016, avrebbe dovuto come prevede la Costituzione organizzare il voto e farsi da parte, ma non sembra avere intenzione di lasciare il potere. La marcia dello scorso 31 dicembre era finita in un bagno di sangue: Kabila ordinò all’esercito di impedire la protesta con la violenza e i soldati uccisero almeno otto persone, arrivando perfino a sparare dentro le chiese.
Il bilancio provvisorio della marcia di domenica parla di sei morti, 49 feriti e centinaia di arresti, tra i quali almeno 10 preti e due suore. Nella capitale una donna di 24 anni è morta colpita da una raffica di mitragliatrice indirizzata all’entrata della chiesa di San Francesco di Sales. Sedici persone sono rimaste feriti dopo che la polizia ha aperto il fuoco nella parrocchia di San Giuseppe. Il corteo invece è stato disperso con un intenso lancio di lacrimogeni, al quale i manifestanti hanno risposto con il lancio di pietre, secondo quanto testimoniato dall’Afp. Simili violenze si sono verificate in altre città del Paese.
Kabila sembra intenzionato a bloccare qualunque iniziativa di protesta pacifica con la forza. Già il 12 gennaio, al termine dei funerali delle vittime delle violenze del 31 dicembre, la polizia ha sparato gas lacrimogeni davanti alle chiese ferendo due persone. Lo stesso giorno l’esercito ha fatto irruzione nella parrocchia di San Domenico sparando a vista sui fedeli. Il parroco, don Jean Nkongolo, accorso davanti alle porte della chiesa per chiedere alle forze dell’ordine di smettere di sparare, è stato colpito al volto da un proiettile in gomma rimanendo gravemente ferito. Altre cinque persone sono rimaste ferite, tra le quali una donna colpita da un proiettile vero e ancora in ospedale. Anche chi non aveva intenzione di aderire all’ultima marcia di protesta, come padre Apollinaire Cikongo, segretario della Conferenza episcopale nella provincia di Kananga, aveva cambiato idea dopo l’attacco gratuito alle chiese del 12 gennaio.
La Chiesa cattolica rimane l’unica istituzione credibile in un paese ricchissimo di risorse naturali ma ormai allo sbando e sull’orlo dell’implosione. Già dopo gli attacchi del 31 dicembre, il cardinale Laurent Monsengwo, arcivescovo di Kinshasa, aveva duramente condannato le uccisioni, dichiarando che «è tempo che la verità prevalga sulla menzogna e i mediocri se ne vadano». Se l’Onu, presente nel Paese con un contingente di 15 mila soldati, non sembra in grado di fermare le violenze e far ragionare Kabila, la comunità internazionale sembra non voler vedere quanto sta accadendo, anche perché il presidente negli ultimi anni ha concesso a numerose compagnie straniere lo sfruttamento delle risorse naturali del Paese.
Leone Grotti
Tempi.it, 23 gennaio 2018