Sergio Belardinelli insegna sociologia dei processi culturali all’università di Bologna, ma abita nell’entroterra pesarese. L’episodio di violenza razzista avvenuto a Macerata lo tocca da vicino, quindi, non solo come studioso dei problemi sociali.
“Guardi, io vivo nella provincia marchigiana e che un fatto del genere sia accaduto da noi è particolarmente inquietante perché qui siamo gente magari un po’ ruvida ma accogliente. È il segno di una situazione complessiva che dobbiamo deciderci di affrontare seriamente prima che sia troppo tardi”.
Professore, una cosa simile in Italia non si era mai vista…
Sì, effettivamente ce lo saremmo aspettati da un terrorista, non da uno che poi rivendica motivazioni di quel tipo. Ma non mi fermerei al fatto in sé, così come non cadrei nell’errore di connettere troppo strettamente questo episodio con quello, pure enorme, dell’uccisione della ragazza. Mi sembra molto più utile partire da questi fatti per avviare una riflessione su quel che stiamo diventando o forse siamo già diventati.
Oggi è fondamentale fare i conti con noi stessi a tutti i livelli, cominciando dalla scuola, perché è evidente l’emergenza educativa in cui ci troviamo.
Fare i conti in che senso?
Se vogliamo andare alle radici dei problemi, dobbiamo riconoscere che fatti come quello di Macerata segnalano uno spaesamento di tipo antropologico-culturale.
Conosciamo bene, purtroppo, le narrazioni dominanti su tutto quel che riguarda il fenomeno migratorio. Ma alla base c’è una scarsa dimestichezza con la nostra identità culturale. L’identità italiana e, mi lasci dire, quella marchigiana in particolare, riflette bene quel principio che è anche profondamente cristiano dell’apertura e, allo stesso tempo, del radicamento in una comunità. Il senso autentico di questa identità avremmo dovuto coltivarlo anche prima che venisse messo in discussione dal confronto con persone di diversa cultura. Ci avrebbe aiutato a pensare un’accoglienza molto più consapevole e anche più realistica. C’è un nesso molto stretto tra l’ostilità con cui in passato è stato visto il tema dell’identità e la leggerezza – leggerezza criminale mi verrebbe da dire – con cui oggi il tema viene usato in termini di esclusione. Noi contro loro. Quando sento dire “rimandiamoli tutti a casa” oppure “accogliamoli tutti”, mi viene da pensare che non abbiamo più la consapevolezza di quello che siamo.
A livello politico che cosa si può fare?
Purtroppo viviamo in una temperie politico-culturale non favorevole a una democrazia che deve affrontare sfide epocali e per farlo deve riscostruire un senso autentico di solidarietà. Eppure la politica deve finalmente prendere di petto il problema, senza emotività, ma con serietà, a partire da dati precisi, razionalmente, facendosi carico anche delle paure che il fenomeno migratorio genera soprattutto nelle fasce della popolazione che si sentono più deboli e insicure, come gli anziani.
Nessuno ha la bacchetta magica e sarebbe importantissimo – lo dico a costo di apparire un ingenuo – che le forze politiche si accordassero nel tenere fuori dalla campagna elettorale un uso strumentale di questi problemi. C’è bisogno di abbassare i toni. Aggiungere ai problemi il surriscaldamento della propaganda politica non solo non aiuta a risolverli, ma rischia di renderli ancora più ingestibili.
È l’Europa che fa, sta a guardare?
È del tutto evidente che il livello a cui si pone la questione delle migrazioni interpelli in maniera diretta l’Europa e le sue istituzioni. Invece l’Europa non è stata neanche capace di parlare con una sola voce. Il modo con cui si è posta davanti al fenomeno migratorio è il segno di una crisi culturale dell’uomo europeo che non si vedeva dai tempi dei totalitarismi.
Stefano De Martis
Sir, 6 febbraio 2018