Qualche settimana fa, Mark Zuckerberg, il trentasettenne fondatore di Facebook, ha dovuto rispondere alle incalzanti domande dei senatori delle commissioni di Commercio e Giustizia di Capitol Hill, Washington. Il colloquio con i membri del Senato americano ha riguardato il caso Cambridge Analytica e le conseguenze di quest’ultimo sulle elezioni del presidente Trump.
Ciò che è stato recriminato a Zuckerberg dai senatori statunitensi è, soprattutto, la scarsa attenzione di Facebook verso la protezione dei dati dei suoi utenti. Stando alle stime del “Guardian” e del “New York Times”, si parla di circa 50 milioni profili Facebook raggiunti da Cambridge Analytica.
Ora facciamo un passo indietro per capire come questo sia potuto succedere: la piattaforma Cambridge Analytica è stata fondata nel 2013 da Robert Mercer e la sua funzione era quella di raccogliere dai social network più informazioni possibili sugli utenti (“Mi piace”, profili visitati e commentati, luoghi condivisi e via dicendo). Tutte queste informazioni venivano memorizzate e catalogate dal sistema e successivamente usate per creare dei profili psicometrici curati nei minimi dettagli sui fruitori del social network. Questo poi permetteva di creare delle campagne pubblicitarie “su misura”, seguendo le inclinazioni e le preferenze di ogni singolo utente.
Il collegamento tra Cambridge Analytica e Facebook si approfondisce nel 2014, quando Aleksandr Kogan -ricercatore di Cambridge- crea un’applicazione: “This is your digital life”. Come moltissime altre app (come, ad esempio, l’applicazione per lo streaming musicale Spotify), il login poteva svolgersi collegandosi direttamente a Facebook, che metteva a disposizione alcune informazioni utili per la registrazione.
Il problema sorge nel momento in cui Kogan entra in contatto con Cambridge Analytica e le informazioni rilasciate da Facebook arrivano nelle mani della piattaforma di Mercer, andando così a violare i termini d’uso di Facebook, che vietano la fuoriuscita di dati causata da terzi. In questo modo, non solo i dati personali dei quasi 270 mila iscritti a “This is your digital life” sono finiti a Cambridge Analytica, ma anche quelli di qualsiasi persona che ha interagito su Facebook con l’utente registrato sull’app di Kogan.
Secondo il “Guardian”, Facebook era a conoscenza di questo meccanismo da almeno due anni ma la sospensione per violazione dei termini d’uso è arrivata solamente lo scorso 16 marzo. Un ritardo dovuto, come sostenuto dai senatori stessi, da una poca attenzione del team di Zuckerberg riguardo alla protezione dei dati.
Ciò ha portato opinione pubblica e senatori a sospettare che quanto accaduto possa aver aiutato Donald Trump a diventare il settantaquattresimo inquilino della Casa Bianca. Durante la campagna elettorale il manager Steve Bannon ha messo in contatto lo staff di Trump con Cambridge Analytica, in modo da creare una campagna marketing su larga scala e più mirata possibile. Non è ancora stato pienamente appurato se ci sia stato un effettivo uso dei dati degli utenti di Facebook in questo frangente ma ciò che è sicuro, testimoniato dallo stesso Zuckerberg, è che circa 87 milioni di persone sono state raggiunte dalla piattaforma di Mercer e i loro dati sono stati messi a rischio.
Zuckerberg stesso, rimarcando svariate volte il fatto di aver creato qualcosa di rivoluzionario come Facebook partendo da un garage e usando questo aspetto quasi come una giustificazione per quanto avvenuto, ha ammesso le colpe sue e del suo staff. Ha riconosciuto di aver peccato di eccessiva fiducia quando Cambridge Analytica mentì sua sull’aver cancellato i dati degli utenti di Facebook, anche se ciò non era effettivamente avvenuto.
Questa stessa fiducia incontrastata espressa, nonostante tutto, dal trentasettenne durante i due interrogatori davanti al Senato americano è in totale contrasto con le idee del sociologo bielorusso Evgenij Morozov. Già nel suo libro: “Silicon valley: i signori del cilicio”, pubblicato nel 2016, aveva espresso dei sospetti verso il mondo dei social network e del web in generale. Secondo Morozov l’atteggiamento del fondatore di Facebook, così come quello di molti altri giganti del settore, può indurre in errore il consumatore: anche se questi servizi sono gratuiti, non sono pubblici e noi, appunto, non siamo altro che consumatori. Non abbiamo alcun potere.
I servizi che il web ci presenta sono creati e portati avanti da attori sociali, che seguono la logica del guadagno. In questo modo il diritto alla privacy, riconoscibile come un diritto di nuova generazione, ancora in fase di sviluppo e codificazione, è messo a grave rischio, poiché si trova in balia di queste imprese.
“I nostri diritti, la possibilità di esercitare in una comunità le nostre prerogative sono influenzati – spesso in modo non del tutto visibile – dai giganti dell’hi-tech: acquisiscono le informazioni sulla nostra vita e utilizzano questo enorme archivio come capitale politico per influenzare le scelte dei governi”, lo scrittore bielorusso affermò ad un’intervista per “Repubblica”, quasi anticipando i sospetti che ora nascono a causa di Cambridge Analytica.
Morozov intreccia al web anche il problema dell’automatizzazione. Qualsiasi impresa sembra costretta a conformarsi ad un modello di business legato a doppio filo al mondo del web. Si è costretti ad entrare in contatto con Zuckerberg e Co. e questo non fa altro che facilitare la raccolta di dati e, di conseguenza, la capacità di creare un target specifico per ogni utente. Questo permette al marketing pubblicitario di insinuarsi tra i nostri dati e usarli a suo favore, sia che si tratti di costruire una campagna elettorale per eleggere il nuovo “leader del mondo libero”, sia che si tratti di promuovere un nuovo modello di scarpe, riconosciuto come affine ai gusti da noi manifestati sul nostro profilo Facebook.
Laura Ruffato
15 maggio 2018
Cambridge Analytica: quando fidarsi è bene, ma non fidarsi del web è meglio