Ho ricevuto alcuni giorni fa una mail con questo testo che desidero commentare con voi.
«Ho 31 anni, abito a Milano, sono medico e sto concludendo la Scuola di specializzazione in Neurologia. Terminato il liceo classico mi sono iscritta alla facoltà di medicina più per motivi opportunistici e speculativi che valoriali. Poi, man mano che praticavo il tirocinio, che mi portò a contatto con la sofferenza reale, mi sono “innamorata” dei miei pazienti, ed ora per loro faccio il possibile e anche l’impossibile, ma poi, ad un certo punto, mi devo arrendere. Sono cristiana ma non praticante. Quello che non approvo della Chiesa è l’ insistenza sulla “dignità della vita” anche quando è totalmente priva di qualità e direi di senso. E’ questa un’esperienza che vivo quotidianamente operando in un reparto di malattie celebro-vascolari che frequento per la specializzazione. Le racconto una situazione che nel corso degli studi mi ha segnata profondamente e mi ha suscitato alcuni interrogativi esistenziali per ora senza risposte. Al secondo anno di medicina ho scelto un Corso Elettivo (quelli facoltativi) dal titolo: ”Il Volontariato Socio-Sanitario” che mi ha permesso di accostare alcune tipologie di malati. Era la prima volta, e mi ricordo perfettamente il trauma che ho subito incontrando in un istituto di riabilitazione psichiatrica persone di venti, trenta, quarant’anni e più che affetti da ritardo mentale, parlavano ed agivano il più delle volte da bambini. E mi sono chiesta se la loro fosse un’accettabile “vita di qualità”». Silvia.
Silvia con la sua riflessione ha evidenziato una tematica fondamentale che non può essere tralasciata nella anche nella nostra società che si stanno sviluppando riflessione sul termine vita e, in particolare, il dibattito sul suicidio assistito e sull’ eutanasia.
Rispondo a Silvia pubblicamente poiché sono convinto, anzi certo, che tantissimi pensano come lei.
Conosco il “Corso Elettivo” citato da Silvia avendo collaborato per alcuni anni all’attuazione con la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano. Ricordo la mia preoccupazione affinché il percorso fosse ricco di significati per gli studenti, non unicamente a livello teorico ma anche professionale ed esistenziale. Per questo, con le lezioni, programmammo il tirocinio molto apprezzato e attuato presso associazioni di volontariato o enti socio-assistenziali. Mi fa piacere che una visita a sofferenti psichiatrici suscitò in Silvia l’interrogativo sulla “qualità della vita” a cui tenterò, non di rispondere, ma unicamente di offrire dei suggerimenti, memore dell’insegnamento di Carlo Bo, famoso critico letterario italiano, che affermò: «non c’è una letteratura della sofferenza, ci sono solo dei gridi». E i “gridi”, non si spiegano, ma si ascoltano.
Silvia si chiede: «Io da medico devo salvaguardare la qualità o la dignità dell’esistenza dei miei pazienti?». Nella società attuale che principalmente ricerca la “qualità” a scapito della “dignità”, dove molti agiscono pavlovianamente(1) indotti dai mass-media, la mia risposta è che dobbiamo “proteggere” entrambi. “Qualità”, “dignità”, ed aggiungo “sacralità” sono concetti da intersecare essendo l’uomo un essere unitario.
La dicitura “qualità della vita” è d’uso comune; coinvolge la sfera societaria e personale, estendendosi dalla salute al desiderio di autodeterminazione. Eloquente è l’irrealistica “definizione di salute” coniata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): «Stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non solo assenza di malattia e di infermità», cui fa seguito un’ambigua concretizzazione: «Lo stato di benessere fisico e mentale è necessario per vivere una vita piacevole, produttiva e ricca di significato». Ma, è opportuno evidenziare, superando l’utopia, che nessuno realizzerà contemporaneamente i vari “benesseri” indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Quindi, pochi, se assumessimo come riferimento esistenziale l’enunciato proposto, vivrebbero un’esistenza ricca di significati.
La “qualità della vita”, percepita unicamente in termini di beni, d’efficienza e di piacere diverge notevolmente dall’idea cristiana di “dignità e sacralità della vita”, perché chi non consegue per la fragilità un livello minimale o affronta situazioni di completa compromissione, senza opportunità di recupero, smarrirebbe il significato dell’esistenza.
Decantare la “qualità della vita”, attribuisce importanza unicamente alla porzione di esistenza riferibile alla materialità, tralasciando le dimensioni percepibili dai sensi (relazioni affettive, amore, amicizia, mutualità e solidarietà…) e l’aspetto spirituale. È irrinunciabile, dunque, identificare parametri alternativi che manifestino che ogni vita, anche se carica di sofferenza, può ottenere una rilevante ed accettabile “qualità”. Questi coincidono con l’adeguamento ai limiti esistenziali, con l’accoglienza positiva delle trasformazioni che una patologia comporta, con il significato attribuito a quel determinato periodo dell’esistenza. L’errore odierno consiste nel coniugare i “parametri di qualità” con il “concetto di salute”, scordando che la malattia, la disabilità e le difficoltà sono parti costitutive del Dna di ogni persona. E, nonostante gli sforzi della scienza, sarà irrealizzabile debellare totalmente la fragilità e sconfiggere la morte. È opportuno, pertanto, riappropriarsi della “cultura della malattia e della vecchiaia” per ridonare senso, significato e anche valore al dolore a alla sofferenza, altrimenti si trasformano il suicidio assistito e l’eutanasia, in atti di benevolenza nei confronti del malato.
Questa è la semplice teoria di un sano, o corrisponde all’esperienza di tanti sofferenti?
È la testimonianza di molti.
Dalla beata Benedetta Bianchi Porro che a tredici anni cominciò a perdere progressivamente l’udito per giungere a ventitré totalmente immobile, oltre che cieca, essendo affetta da neurofibromatosi diffusa, a san Giovanni Paolo II che sperimentò lunghi periodi di dolore fisico, e definì i sofferenti “tesori” per la Chiesa e per l’umanità.
E’ l’attestazione di innumerevoli fragili e vulnerabili ma che per i “paladini della morte” sono degli “invisibili”, quindi non trovano mai cittadinanza nei mezzi di comunicazione. Loro implorano dalle Istituzioni di essere posti nella condizione di “essere liberi di vivere” potendo usufruire di adeguati supporti.
È la voce dei malati che incontro quotidianamente come cappellano ospedaliero.
È l’esperienza del cardinale Angelo Comastri, già arcivescovo di Loreto e già arciprete della basilica di San Pietro, che ci offre una testimonianza più significativa di mille ragionamenti”. «Una sera al termine della preghiera nella basilica di Loreto, piena di malati, mi avvicino ad una culletta sostenuta dalle braccia robuste di un barelliere, ma dentro non vedo un bambino bensì una donna adulta: un piccolissimo corpo (58 centimetri) con un volto splendidamente sorridente. Tendo la mano per salutare, ma l’ammalata con gentilezza mi risponde: “Padre non posso darle la mano, perché potrebbe frantumarmi le dita: io soffro di osteogenesi imperfetta e le mie ossa sono fragilissime. Voglia scusarmi”. Ovviamente non c’era nulla da scusare, ma rimasi affascinato dalla serenità e dalla dolcezza della ammalata e volevo sapere qualcosa in più della sua vita. Mi prevenne e mi disse: “Padre, sotto il cuscino della mia culletta c’è un piccolo diario; è la mia storia. Se ha tempo, può leggerla”. Presi i fogli lessi il titolo: “Felice di vivere”. Io la riguardai e domandai: “Perché sei felice di vivere? Puoi anticiparmi qualcosa di quello che hai scritto?” L’ammalata mi disse: “Padre, lei vede le mie condizioni, ma la cosa più triste è la mia storia! Potrei intitolarla così: abbandono! Eppure sono felice, perché ho capito qual è la mia vocazione. Sì, la mia vocazione! Io, per un disegno d’amore del Signore, esisto per gridare a chi ha il dono della salute: Non avete diritto di tenerla per voi, la dovete donare a chi non ce l’ha, altrimenti la salute marcirà nell’egoismo e non vi darà la felicità. Io esisto per gridare a coloro che si annoiano: Le ore in cui voi vi annoiate mancano a qualcuno che ha bisogno di affetto, di cure, di premure, di compagnia; se non regalerete quelle ore, esse marciranno e non vi daranno felicità. Io esisto per gridare a coloro che vivono di notte e corrono da una discoteca all’altra: Quelle notti, sappiatelo, mancano drammaticamente, mancano a tanti ammalati, a tanti anziani, a tante persone sole che aspettano una mano che asciughi una lacrima: quelle lacrime mancano anche a voi, perché esse sono il seme della gioia vera! Se non cambierete vita, non sarete mai felici!”. Io guardavo questa ammalata e non osavo commentare e fu lei che aggiunse: “Padre, non bella la mia vocazione?” (Relazione al Convegno: Il malato e il giorno del Signore).
Ebbene, l’orgoglio di affermare: «Padre non è bella la mia vocazione?», racchiude l’esperienza di colei che ha conseguito una degna qualità di vita, convivendo con le proprie fragilità.
Concludendo, vorrei fare un accenno anche a coloro che vivono handicap leggeri, preparatissimi nelle varie discipline, quasi indipendenti, ma emarginati sia dalla Chiesa che dal settore industriale che dalla società civile che si riempie la bocca di “inclusione”.