11 FEBBRAIO 2014 – XXII GIORNATA MONDIALE DEL MALATO

Il tema proposto per la XXII Giornata Mondiale del Malato è: “Fede e carità. ‘Anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli’ (1 Gv. 3.16)”.

L’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Salute ha predisposto del materiale per l’animazione di questa giornata nelle comunità diocesane e parrocchiali e anche una scheda di approfondimento Teologico-Pastorale che brevemente riassumiamo.

Il titolo della scheda “Educati dalla fede alla cultura del dono” è strettamente correlato con il cammino che la Chiesa Italiana sta conducendo in questo secondo decennio del ventunesimo secolo riguardante l’educare alla vita buona del Vangelo.

Cinque sono i punti proposti dalla Scheda che aiutano a rispondere ad alcuni interrogativi di fondo. In quale direzione deve orientarsi la Pastorale della Salute della nostra diocesi? Quali obiettivi raggiungere e quali strade percorrere?

Il primo punto della Scheda è una riflessione sulla “cultura del dono” nell’attuale contesto societario.

La “cultura del dono” può apparire una tematica “fuori luogo” dato che i modelli e le logiche proposte oggi, più o meno velatamente, affermano l’esatto contrario vivendo in una società guidata dalle leggi del mercato e della concorrenza, in una situazione culturale che confonde il valore con il prezzo, la bontà con l’efficienza, la produttività con il profitto, in una quotidianità dove anche le relazioni più intime sono spesso fondate su un rapporto di reciprocità, almeno a parità di valore. E questo anche a livello famigliare.

Cos’è il dono? E’ il compiere un’azione gratuita, disinteressata, resa senza attendere nessun compenso né di carattere economico, né di prestigio, né di potere, ma unicamente nell’ottica della condivisione con gli altri di quello che si è e di quello che si ha. L’autentico dono, poi, deve essere accompagnato dallo sforzo, dalla rinuncia e dal sacrificio.

Riteniamo che questo sia un aspetto reale, capace di trasmettere qualcosa agli uomini del nostro tempo? Se donando ci perdo io, perché devo donare? Cosa guadagno a donare?

Il secondo punto riguarda gli elementi costitutivi del dono.

Accostare il sofferente, a volte, è noioso e impegnativo perché questo è lamentoso, ripetitivo, spesso scontento…, e il più delle volte, neppure riconoscente. Dunque, chi dona autenticamente, non si aspetta nulla in cambio; neppure la gratitudine.

Un efficace esempio da assumere affinché il nostro dono sia vero, puro e schietto lo troviamo nel Vangelo di Marco quando Gesù indica ai suoi interlocutori una povera vedova che depone nel tesoro del Tempio due spiccioli; un valore economico irrilevante rispetto ai consistenti oboli offerti dai ricchi. Ma Cristo commenta: “In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato il loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere” (Mc.12.43).

Questa è la caratteristica da presentare alla società: il carisma del dono e della gratuità. Ma la “purezza” d’intenzione richiede un percorso di conversione personale lungo e impegnativo, poiché nel cuore dell’uomo s’intrecciano continuamente egoismo e altruismo. Da qui scaturisce anche una domanda: quali criteri utilizzo per verificare se dono gratuitamente e liberamente?

Nella terza parte della Scheda siamo invitati a contemplare la sorgente della carità, cioè il Signore Gesù, che più volte nella sua predicazione ha trattato questo argomento.

Tra i molti brani che potremmo esaminare fermiamo la nostra attenzione sulla grandiosa scena del Giudizio Universale quando Cristo affermò: “Ero malato e mi avete visitato” (Mt. 25,36). “Ero malato…”, cioè debole nel corpo e prostrato nello spirito. Sono i due volti dell’ infermo che fatica a rassegnarsi; si lamenta e si ribella, chiedendo a Dio ragione della sua sofferenza e agli uomini il conforto. “… E mi avete visitato”: dobbiamo visitare il malato.

Nella lingua italiana, il verbo “visitare”, ha smarrito la ricchezza contenutistica presente nel testo evangelico che sottolineava l’osservare l’altro con attenzione e con interesse, superando l’atteggiamento fuggevole e distratto. “Visitare”, significa incontrare il malato accogliendolo, e non unicamente offrendogli un aiuto fisico o materiale. Nella frase evangelica assume ampio rilievo anche la particella “mi”: “Ero malato e ‘mi’ avete visitato”.

Abbiamo visitato il sofferente, ma in realtà abbiamo incontrato il Signore Gesù. Di conseguenza, visitare il bisognoso d’aiuto, non significa unicamente porsi accanto a lui per amore di Cristo; esige di più. Dobbiamo assumere nei confronti dell’ammalato l’ atteggiamento che useremmo nei riguardi del Messia se lo incontrassimo fisicamente. Per questo, ci dobbiamo porre accanto al sofferente, “come” fosse il Cristo, poiché in quel momento lo rappresenta.

Questa impostazione, rivoluziona ogni nostra azione nei confronti del bisognoso d’aiuto; serviremo il malato con il massimo rispetto e con grande premura, ringraziandolo per la possibilità che ci offre. Condividiamo quest’ affermazione? Che cosa riteniamo si debba fare per muoversi in questa direzione?

L’ultimo punto della Scheda riguarda la cultura del dono in rapporto alla pastorale della salute.

E qui propongo due riflessioni.

1.”Promuovere la cultura del dono, afferma la scheda, è un riconoscimento incondizionato della dignità di ogni persona umana”. Tutti condividono questo principio ma con ottiche e angolature particolari; perciò dobbiamo chiederci: chi è la persona per noi e per i nostri interlocutori?

Il riconoscimento incondizionato della dignità di ogni persona umana ci impegna ad amare e rispettare l’uomo con uno stile simile a quello che si dovrebbe assumere nei riguardi di Dio, essendo impossibile adorare il Creatore invisibile senza onorare contemporaneamente la viva immagine che lo proietta nel mondo, vale a dire la creatura. Sono atteggiamenti strettamente uniti; anzi, uno dimostra l’autenticità dell’altro. Amare Dio, dimenticandosi di servire l’uomo, fa sorgere il dubbio che il Dio onorato non sia quello presentato da Gesù, il quale lo indica Padre di tutti gli uomini che tra loro sono fratelli. Amare l’uomo, scordando Dio, si rischia di strumentalizzare l’amore, di ricopiare ideologie e frammentazioni sociali, con il pericolo di schiavizzare il prossimo, non rispettandolo nella sua unicità e nel suo valore individuale e sociale.

I primi capitoli del libro della Genesi presentano l’uomo come l’unica creatura amata da Dio per se stessa mentre le altre sono ordinate al suo sviluppo e alla sua prosperità. Oggi, in diverse situazioni, questo canone appare capovolto.

Dunque, ogni creatura terrestre è finalizzata unicamente al bene della persona, mentre questa non può essere trasformata in strumento di nessuno. Questa convinzione esige la sconfitta della tendenza a esprimersi in termini generali, parlando di umanità, di classi, di ceti, di categorie, di pazienti, di utenti…, per riconoscere la persona che, con un nome e un volto sta di fronte in quel momento, con il suo problema.

L’esempio più bello è offerto da Dio, che come ricorda un autore: “sa contare solo fino a uno”. Nell’Antico Testamento si parla di uomo più che di umanità e Dio chiama per nome coloro cui affida una missione. Anche per Gesù non esistevano le classi dei bisognosi o dei malati; per lui erano presenti unicamente quel lebbroso, quel cieco, quel paralitico, quella donna vedova che seppelliva il figlio o quella samaritana incontrata al pozzo di Sicher. Il Cristo che ha concretato la pedagogia dell’incontro da persona a persona, ci invita a rinnegare la convinzione, a volte trasformata in idolatria, che unicamente mediante artefatte riforme si possa rispondere meglio alle richieste delle varie fragilità.

Come “esportare” questo stile e questa modalità relazionale in una cultura prevalentemente orientata in direzione almeno divergente, se non contraria? Come porci da cristiani accanto all’uomo, nel nostro caso quello sofferente?

Con compassione e non con pietà!

Lo scrittore americano A. Roud nei suoi aforismi illustra i due termini che sembrano sinonimi ma non lo sono: “Compassione e pietà sono assai differenti. Mentre la ‘compassione’ riflette l’anelito del cuore a immedesimarsi e soffrire con l’altro, la ‘pietà’ è una serie controllata di pensieri intesi ad assicurarci il distacco da chi soffre” (da Selezione Reader’s Digist, settembre 1997). Da ciò si deduce che unicamente “la compassione” consente di instaurare autentiche relazioni con il sofferente.

Cos’è la compassione? E’ “la capacità di sentire e soffrire con la persona ammalata, di sperimentare qualcosa della sua malattia, le sue paure, ansietà, tentazioni, i suoi assalti sull’intera persona, la perdita di libertà e di dignità e la sua assoluta vulnerabilità e le alienazioni che ogni malattia comporta” (E. D. PELLEGRINO, Ogni uomo è mio fratello, in “Dolentium hominum” 7, 1988, 60-61).

L’esempio per eccellenza della compassione è Dio che ha donato il proprio Figlio, non per cancellare il dolore o per sanare tutte le situazioni di fragilità, ma per “condividere la condizione umana”, farne esperienza e soffrirla con l’uomo, non rifiutando neppure la morte (cfr. Fil. 2,1-11).

La compassione, dunque, è il “prendersi cura” e “il prendersi a cuore” l’altro; E. D. Pellegrino e D. C. Thomasma la raffigurano come un’ “arte fondamentale per qualsiasi pratica medica e sanitaria” (Medicina per vocazione. Impegno religioso in medicina, EDB, Roma 1989, 194). Nell’ambito ospedaliero, questo atteggiamento modifica l’abituale rapporto operatore sanitario-paziente e la metodologia di accompagnamento della persona, trasferendo l’interesse dalla patologia alla globalità dell’individuo.

Quali atteggiamenti coltivare perché questo stile sia adottato dalla prassi assistenziale e terapeutica?

2. “Il malato soggetto di evangelizzazione”. Fu il beato Giovanni Paolo II a lanciare questo concetto affermando che il malato è “soggetto attivo e responsabile nell’opera di evangelizzazione e di salvezza” (Christifideles laici n. 54; cfr. anche numero 53).

Da questi numeri dell’Esortazione Apostolica e da numerosi pronunciamenti di Giovanni Paolo II deduciamo che i malati, gli anziani, i portatori di handicap e i fragili hanno una vocazione evangelizzatrice da realizzare nella Chiesa e contribuiscono alla crescita del Regno.

Quale contributo offrono? Aiutano i sani a donare significato al loro soffrire, a ridimensionare i propri problemi, a vivere la speranza, ad accettare il senso del limite e della fragilità presenti nell’esistenza di ogni persona. In altre parole sono “operai” con il loro esempio! Scriveva D. Bonhoffer: “Gesù ha procurato più grazia agli uomini con le mani inchiodate sulla croce, rispetto a quando le stendeva libere sul mare in tempesta” (L’ora della tentazione, Queriniana, Brescia 1972, 71).

Questi concetti rovesciano la mentalità comune secondo la quale gli infermi sono esclusivamente destinatari di attenzioni e di cure e non soggetti attivi della comunità cristiana. Anche la metodologia pastorale va capovolta per favorire una reale inclusione dei fragili nella vita della parrocchia e programmare delle azioni non solo “per” i malati ma “con” i malati.

Come armonizzare la pastorale della salute in questa direzione?

E la Scheda termina con una citazione di A. Wodka che ben riassume quello che abbiamo evidenziato: “Il dare, il donarsi nel dono, immerge l’offerente in Dio e lo riporta al fratello, visto non più come ‘consumatore’ del beneficio, ma come benefattore, donatore del divino. Accogliendo il dono infatti egli offre al donatore la possibilità di dare e con questo la possibilità di sperimentare la ‘beatitudine maggiore’ affermata da Gesù (At. 20, 35). Il grazie quindi dovrebbe dirlo non tanto colui che riceve quanto colui che dona: ‘Grazie di avermi messo in condizione di poter dare. Così esisto in Dio’ ” (Il “dare” nell’esperienza apostolica di san Paolo, “Unità e carismi” 6, 1993, 16).

(Pubblicato in Avvenire, Milano 7, 9 febbraio 2014)

 

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