39° GIORNATA NAZIONALE PER LA VITA (2)

IL NOSTRO ATTEGGIAMENTO

Quali alternative offrire alla donna intenzionata a sopprimere la vita che porta nel grembo?

È ingenuo e semplicistico limitarsi ad affermare che “la vita è sacra” e “non va soppressa” dal momento che possiamo confrontarci con donne che abortiscono superficialmente (terzo o quarto aborto). Ma, a fianco di queste, troviamo madri, sposate o non, con notevoli difficoltà che vivono dilemmi angosciosi, e per loro la *gravidanza è motivo “d’afflizione” e di “immensa sofferenza”. Nella “Relazione al Parlamento” del Ministro della Salute si apprende: nel 2015 il 19-20% di donne ha abortito per la seconda volta, il 5-6% per la terza volta, il 2-3% per la quarta volta, l’1-2% per la quinta volta.

Occorre, dunque, ergersi a “paladini della vita” non unicamente a parole ma concretamente, ponendosi a fianco delle madri in disagio per donare loro l’amore e il coraggio per affrontare una gravidanza. Alle future mamme nel dubbio e nell’incertezza dobbiamo indicare le istituzioni che le affiancheranno e le assisteranno: i “Centri di Aiuto alla Vita”, i “Movimenti per la Vita”, i “Consultori Famigliari di ispirazione cattolica”. In Italia, operano 345 “Centri di Aiuto alla Vita” che, in 30 anni, hanno sostenuto nella nascita 160mila bambini; 10mila nel solo 2015. Il 78% delle donne “soccorse” aveva già ottenuto il certificato per abortire; l’incontro con questi enti e l’impegno dei volontari hanno permesso loro di concludere serenamente la gravidanza.  È stato inoltre ideato il “Progetto Gemma” per l’adozione a distanza di madri “a rischio *di aborto” fornedo loro nell’anonimato e con riservatezza, per 18 mesi (gli ultimi sei mesi di gravidanza e il primo anno di vita del bambino), somme di denaro ed aiuti concreti. Il Progetto ha accompagnato oltre 20mila mamme. Altra alternativa all’aborto è la possibilità di partorire in ospedale “anonimamente” ed abbandonare il neonato alla struttura sanitaria che provvederà alla cura (cfr.: Legge 28/1983, art. 7 & 7 e D.P.R. 3 novembre 2000, art. 30 &1). Non dimentichiamo, infine, le “culle per la vita” presenti in vari luoghi del nostro Paese.

Dobbiamo altresì “vigilare” ed “esigere” che gli aspetti definiti “positivi” della Legge 194, cioè i “filtri” previsti, ma poco attuati, siano rispettati ed ampliati. Ciò dovrebbe avvenire nei consultori pubblici e in alcune strutture socio-sanitarie. È loro obbligo “far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza” (Legge 194/78, art. 2). Costituiti come luoghi di accoglienza, di sostegno e di dissuasione, spesso si sono mutati per la carenza di risorse e per la presenza di operatori non obiettori, in “fabbriche dell’aborto”, ammettendo ogni scusante della donna, mentre medici, infermieri, psicologi… dovrebbero operare insieme per prevenire l’aborto. La vigilanza va attuata anche nei confronti degli “aborti tardivi” vietati dall’articolo 7 della Legge 194, “quando sussista la possibilità di vita autonoma del feto”, comunemente dopo la ventiduesima settimana.

Un altro impegno interessa il “livello culturale” per neutralizzare la pressante campagna massmediatica che sta modificando nella “coscienza del nostro popolo” un’azione negativa, in atto neutro o anche positivo essendosi formata, come ricordava papa Benedetto XVI al “Movimento per la vita”, “una mentalità di progressivo svilimento del valore della vita. Da quando in Italia fu legalizzato l’aborto ne è derivato un minor rispetto per la persona umana, valore che sta alla base di ogni convivenza, al di là della fede professata” (12 maggio 2008).

Molti italiani, il 17 maggio 1981, affermarono: “L’aborto è un fatto di coscienza: io non lo praticherei mai, ma devo rispettare la libertà altrui”. Dichiarazione viziosa, poiché l’aborto non riguarda unicamente la coscienza della donna ma il diritto alla vita di un altro essere umano di cui siamo responsabili, essendo ogni uomo, come già affermato, “il guardiano di suo fratello, perché Dio affida l’uomo all’uomo” (Evangelium vitae, n. 19).

CHIESA E STATO

Per la mentalità comune, è legittimo che la Chiesa condanni l’aborto, ma lo Stato laico ha l’obbligo di legalizzarlo. L’errore di questo ragionamento riguarda il fatto che l’aborto non è unicamente “un peccato”, ma un “atto omicida” perciò contrastante con il “bene comune”. Di conseguenza, nessuna società civile può legalizzare “l’omicidio di Stato”. L’articolo 2 della Costituzione Italiana dichiara: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali…”.

 “NON DARÒ MAI AD UNA DONNA UN RIMEDIO ABORTIVO”

La frase, tratta dal “Giuramento di Ippocrate”, è in totale contraddizione con la Legge 194, anzi stravolge la finalità della medicina poiché non promuove la vita ma provoca morte.

Di fronte al “dramma di coscienza” della maggioranza degli operatori sanitari, la normativa prevede all’articolo 9 “l’obiezione di coscienza” che è un “obbligo” per chi ama la vita e ne rispetta la sacralità.

UNA LETTURA OBIETTIVA DELLE LEGGE

La Legge 194 si definisce “a tutela della maternità”, quindi si potrebbero arrestare quasi tutti gli aborti, poiché i requisiti per interrompere la gravidanza sono il “rischiare la vita” da parte della madre, oppure “condizioni incompatibili con la prole”. Perciò, secondo la normativa, tutti i bambini hanno il diritto di nascere, anche i portatori di handicap.

Eloquente è la sentenza 14488/04 della “Corte di Cassazione” che negò ad una coppia un risarcimento miliardario richiesto ad un ginecologo che non informò i genitori sul *rischio che il bambino potesse nascere affetto da “Talassemia Maior”. Riportiamo alcuni brani della sentenza. “L’interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio o grave. La sola esistenza di malformazioni del feto, che non incidano sulla salute o sulla vita della donna, non permettono alla gestante di praticare l’aborto”. L’aborto “non è l’esercizio di un diritto della gestante, ma un mezzo concessole per tutelare la sua salute e la sua vita, sopprimendo un altro bene giuridico protetto”. E poiché il nostro ordinamento non prevede l’aborto eugenetico, non è ammissibile che il “concepito malformato possa, una volta nato, richiedere il risarcimento del danno per la vita ingiusta che egli ha avuto in conseguenza del comportamento omissivo o errato del medico nei confronti della propria genitrice, per mancata o errata informazione”. La “Corte di Cassazione” ha sentenziato dunque che è illegale ricorrere all’aborto se il feto è malato. Ma, nella quotidianità, la condotta è differente; anzi, sono stati denunciati e condannati medici che esigevano rispettare la legge.

 

 

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