Premessa

La nascita, la crescita e la morte formano un trinomio inscindibile essendo momenti costitutivi della persona che dovrebbe acquisire sia “l’ars vivendi” che “l’ars moriendi” così descritta da H. Nouwen: “La gente muore. Non solo i pochi che conosco, ma innumerevoli persone, ovunque, ogni giorno, ogni ora. Morire è l’evento umano più naturale, qualcosa che tutti dobbiamo sperimentare. Ma moriamo bene? La nostra morte è qualcosa di più di un destino inevitabile, qualcosa che semplicemente non vorremmo esistesse. Ma può diventare in qualche modo l’atto di una realizzazione, forse più umana di ogni altro atto umano” (Il dono del compimento, Queriniana, Brescia 1995, pg. 12) perché quando l’uomo “non sa più guardare alla propria morte, mettendosi in rapporto con ciò che giace oltre lo spazio e il tempo della sua esistenza, perde il desiderio di creare e l’eccitazione di essere uomo” (H. Nouwen, Il guaritore ferito, Queriniana, Brescia 1982, pg. 18).

1Eppure della morte, un appuntamento che attende tutti, è arduo parlarne: ricorda Ia finitezza e la caducità, incute paura, provoca terrore, suscita pudori in continua crescita. J. Baudrillard afferma: “Al giorno d’oggi non è normale essere morti (…). Essere morti è un’anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile” (Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2007, pg. 89).

Inoltre, il contesto societario, non permette di trattare il tema come ogni altro argomento dell’esistenza, o meglio di recepire la morte come il naturale compimento della persona; perciò si muore peggio che in passato. Da fatto biologico e naturale, da sorella con la quale convivere, è trasformata in nemico da combattere, mostro da esorcizzare, fatto da negare, anche se poi, in diverse circostanze, invade le televisioni e i giornali, ed è presentata nei talk show come spettacolo dove il rispetto è del tutto assente, oppure nei film dove manca ogni coinvolgimento personale e reazione emotiva.

La morte si è trasformata nel tabù degli ultimi decenni del XX secolo e dei primi del XXI. Sembra “che l’antico divieto sociale di parlare di sesso e di funzioni genitali si è oggi spostato sulla morte e sui morti, tanto che G. Gorer parla di ‘pornografia della morte’ (The Pornography of death, è il titolo della sua opera)”(D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana, Piemme, Casale Monferrato 2000, pg. 534). Concetto ripreso anche da P. Ariès: “oggi sembra che ci si vergogni a parlare di morte, come una volta ci si vergognava a parlare di sesso e dei suoi piaceri” (Storia della morte in occidente, BUR, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1980, pg. 184).

1Oggi si vive come se non si dovesse morire mai! La vita è sradicata dalla morte; tutto ci distrae da quest’idea, e di conseguenza questa visione che ha estromesso la morte dalla quotidianità, ha fatto smarrire anche la capacità di accompagnare il prossimo verso la morte.

In occasione del 2 novembre, giorno in cui Commemoriamo i nostri defunti, vogliamo riflettere sulla morte ponendoci una domanda.

 Cosa insegna Gesù nei Vangeli riguardo alla nostra morte?

 I Vangeli non forniscono informazioni alle nostre curiosità sulla morte; motivano unicamente che Gesù è il Signore della vita e della morte come evidenziato nei tre miracoli di risurrezione: il figlio della vedova di Nain (cfr Lc. 7,11-17), la figlia di Giairo (cfr Lc. 8,50-56) e Lazzaro (cfr Gv. 11).

Assistendo allo spegnersi di una vita immediatamente pensiamo alla morte e agli interrogativi che essa pone, dato che ognuno desidererebbe conoscere che cosa incontrerà terminata l’avventura umana.

Nel corso della storia teorie filosofiche o ideologie hanno tentato di attribuire alla morte dei significati ma con scarso successo; sono state conseguite unicamente delle consolazioni fugaci (dottrina della reincarnazione, interpretazione degli astri, parapsicologia…), oppure sull’esempio di Epicuro, la morte, è stata presentata come “fatto naturale”.

Solo nel cristianesimo riscontriamo aspetti di verità e di speranza duratura. La fede, autorizza il credente, a giustificare la morte come parte integrante di un cammino infinitamente più vasto; essa, non annulla la persona, ma la trasfigura mediante il perdurare dell’esistenza in tempi e 1in spazi diversi dagli attuali. Dunque, se la vita prosegue anche dopo la morte, dobbiamo costruire l’eternità giorno dopo giorno, amando e vivendo pienamente ogni momento. Questa convinzione ci invita ad organizzare saggiamente la quotidianità sostenuta da valori, sentimenti e progetti che oltrepassano l’aspetto terreno, compiendo esperienze arricchenti e rinunciando a quelle banali e negative.

“Il problema”, ricordava il cardinale G. Biffi “è molto interessante, drammatico e inevitabile, perché i casi sono due: con la morte o si va a finire nel niente o si va a finire nella vita eterna. Le altre soluzioni sono forzatamente provvisorie. Io so già che tra qualche anno o andrò a finire nel niente o andrò a finire nella vita eterna. Ma se andrò a finire nel niente, io vivo già adesso per niente; cioè, se l’approdo dell’esistenza è il niente, anche la sostanza dell’esistenza è il niente, e questa è un’assurdità. Che qualcosa debba venire dal niente solo per tornare al 1niente è una contraddizione” (L’Aldilà, LDC 1998, pg. 5). L’osservazione del cardinale Biffi ci mostra uno stretto legame tra vita e morte, perché il Signore Gesù ci ha indicato con la sua risurrezione che dopo la morte, l’esistenza di ogni uomo proseguirà nell’eternità in comunione con Dio. In Cristo, rammentava san Paolo, “tutti riceveranno la vita” (1Cor. 15,22), essendo la “primizia di coloro che sono morti” (1Cor. 15,20), cioè la primizia dei risorti. Questa verità, inoltre, è il fondamento del cristianesimo come affermava l’apostolo delle genti: “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana la nostra fede» (Cor. 15,14); eliminato l’evento della risurrezione, la fede risulterebbe unicamente una tragica illusione.

Da ultimo ricordo che un evento, quello della morte, si contrappone ad un altro avvenimento, quello della risurrezione. Il filosofo russo J. Solov’ev rammentava che la morte è “un fatto”, e nei confronti dei fatti, nessuna filosofia, ideologia ed illusione estetica resiste. Ad un fatto, unicamente un altro fatto, può opporsi con successo. Il cristiano possiede nella Risurrezione del Signore Gesù la realtà che lo salvaguardia dalla circostanza della morte che rimane, pur sempre, un mistero ed un passaggio doloroso. Per questo, la morte, è spesso circondata dal timore. Cristo, incarnandosi, ha sperimentato l’autentica esperienza della morte; come ha reagito? Nel Getsemani ebbe paura (cfr Lc. 22,40-46), e pianse al sepolcro dell’amico Lazzaro (cfr. Gv. 11,33), ben consapevole che lo avrebbe risuscitato. Questo ci indica che il Cristianesimo, pur offrendoci dei chiarimenti sulla morte, ne legittima il timore ma non la disperazione.

Abbiamo introdotto questa Pillola di Saggezza affermando che la nascita, la crescita e la morte formano un trinomio inscindibile, essendo momenti costitutivi dell’uomo che deve acquisire sia l’ars vivendi che l’ars 1moriendi. Come? Suggeriva padre D. M. Turoldo: “Guardare la vita dal punto di osservazione della morte, dà un aiuto straordinario a vivere bene. Sei angustiato da problemi e difficoltà? Portati avanti, collocati al punto giusto: guarda queste cose dal letto di morte. Come vorresti allora aver agito? Quale importanza daresti a queste cose? Fai così e sarai salvo. Hai un contrasto con qualcuno? Guarda la cosa dal letto di morte. Cosa vorresti aver fatto allora: aver vinto o esserti umiliato? Aver prevalso o aver perdonato?” (Il dramma è Dio: il divino, la fede e la poesia, Rizzoli 2002, 67).

Esclusivamente così ci riconcilieremo con la nostra morte, con quella che san Francesco d’Assisi definiva “sorella”, ed accompagneremo efficacemente anche il prossimo alla morte, atto elemento rilevante nella professione sanitaria.

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