CURE PALLIATIVE: per morire con dignità

CURE PALLIATIVE

Il 13 marzo sarà discusso dal Parlamento il “Disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento”, ma intanto continua il pressing del fronte pro-eutanasia. Per questo dedichiamo la “Pillola di saggezza” ad una metodologia opposta all’eutanasia che favorisce il “morire con dignità”; sono le “Cure Palliative” così descritte dall’“Organizzazione Mondiale della Sanità”: “si occupano in maniera attiva e totale dei pazienti colpiti da una malattia che non risponde più a trattamenti specifici e la cui diretta conseguenza è la morte. Il controllo del dolore, di altri sintomi e degli aspetti psicologici, sociali e spirituali è di fondamentale importanza. Lo scopo delle cure palliative è il raggiungimento della miglior qualità di vita possibile per i pazienti e le loro famiglie” (1990). “Obbedendo ad una visione olistica della medicina, che prende in considerazione la persona umana nella sua totalità unificata di spirito e corpo, le cure palliative offrono al malato terminale una terapia globale (total care), i cui risultati sono, nella maggioranza dei casi, davvero sorprendenti”[1].

Perciò, le “cure palliative” sono un valido ausilio per sostenere il sofferente nella fase terminale della vita. E “per ammalato terminale si intende un malato inguaribile con una aspettativa di vita minore o uguale a 90 giorni, non più suscettibile di terapie chirurgiche, radianti o chemioterapiche”[2]. “È un’autentica cura da praticarsi in situazioni estreme, con grande saggezza e senso del limite e nella piena assunzione della responsabilità morale e professionale che qualifica la pratica della medicina”[3].

Il vocabolo “palliative” deriva dal termine latino “pallium”, ed indicava il mantello di lana indossato dai pastori coprendoli totalmente. “Quello che in passato designava un indumento volto a proteggere una persona dalle avversità ambientali, indica oggi tutto un insieme di cure finalizzate a difendere il malato terminale dallo scoraggiamento, dall’isolamento e dalla chiusura in se stesso”[4]. Le cure palliative, in senso generale, furono praticate da sempre negli enti assistenziali gestiti dalla Chiesa cattolica, ma nacquero ufficialmente nella seconda metà del XX secolo in Inghilterra con l’esperienza degli “hospices”, strutture che offrivano assistenza mediante una “cura globale”, cioè medico-infermieristica ma anche psicologica, relazionale e spirituale. In Italia, questa prassi assistenziale fu intrapresa solamente negli anni ’80 del secolo scorso, prevalentemente come servizi domiciliari, poiché gli ospedali erano carenti nell’assistenza ai morenti. Anche i medici, formati “per guarire ma poco per curare”, erano scarsamente coscienti che l’ammalato in fase terminale non era un “già morto” ma una persona che stava percorrendo un importante tratto della vita. Quindi, l’etica delle cure palliative si basa sul convincimento che anche nelle situazioni di gravità, il paziente è una persona che pur non guarendo deve essere curata. Si stima che ogni anno, in Italia, 250mila malati dovrebbero essere accompagnati da un approccio palliativo. Il “Libro Bianco degli Hospice” riportava che ad aprile 2016 erano presenti sul territorio nazionale 175 strutture residenziali con un forte disequilibrio tra nord e sud. Essenziale per l’incremento di questo settore fu la Legge n. 38/2010: “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”. L’augurio e l’auspicio è che si possa, nonostante i limiti delle risorse, ampliare questi interventi poiché il vero dramma del malato terminale è che quest’assistenza, in Italia, è ancora scarsa.

Dunque, la medicina palliativa, come accennavamo all’inizio, “costituisce oggi anche un valido strumento contro i sostenitori dell’eutanasia essendo una scelta attiva di accompagnamento alla vita, per darle ancora tutto il significato possibile, compatibilmente con una malattia che distrugge a poco a poco il corpo, ma generalmente mantiene integro e vivo ciò che di più significativo c’è nell’uomo: lo spirito e la mente, che dal corpo non sono mai disgiungibili”[5]. Così un’infermiera di un hospice riassume i desideri di questi malati: “Spesso la cosa più importante che offriamo ai nostri pazienti è una tazza di tè e la possibilità di parlare della morte. Ed è quello che vogliono davvero. Qualcuno che li ascolti e che condivida con loro questo ultimo viaggio senza spaventarsi e senza scappare. Senza volere, a tutti i costi, fare qualcosa”.

Concludiamo riportando la “Carta dei diritti dei morenti”, approvata nel 1997 dalla “Fondazione Floriani” di Milano.

“Chi sta morendo ha diritto:

  1. A essere considerato come persona sino alla morte.
  2. A essere informato sulle sue condizioni, se lo vuole.
  3. A non essere ingannato e a ricevere risposte veritiere.
  4. A partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto della sua volontà.
  5. Al sollievo dal dolore e dalla sofferenza.
  6. A cure ed assistenza continue nell’ambiente desiderato.
  7. A non subire interventi che prolunghino il morire.
  8. A esprimere le sue emozioni.
  9. All’aiuto psicologico e al conforto spirituale, secondo le sue convinzioni e la sua fede.
  10. Alla vicinanza dei suoi cari.
  11. A non morire nell’isolamento e in solitudine.
  12. A morire in pace e con dignità”[6].

[1] M. CASCONE, Diakonìa della vita. Manuale di Bioetica, Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2004,  pg. 383.

[2] L. GENTILE – P. FERRI, Bioetica e cure palliative, in L’Ancora nell’Unità di Salute, n.1, 2004, pg. 52, nota 2.

[3] Bioetica. Nozioni fondamentali, op. cit, pg. 218. Cfr.: AA.VV., Né eutanasia né accanimento: la cura dei malati in stato vegetativo permanente, Lateran University Press, Roma 2002.

[4] Diakonìa della vita. Manuale di Bioetica, op. cit., pg. 383.

[5] Diakonìa della vita. Manuale di Bioetica, op. cit., pg. 383.

[6] Cfr.: www.fondazionefloriani.eu.

 

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