GUAI ALLO STATO CHE CONSEGNERA’ IL SUO POPOLO AL FISCO

Anno 1956, la profezia (inascoltata) di un grande liberale.

Questo brano è stato scritto nel 1956 dallo storico e giurista belga Jacques Pirenne, un gigante del pensiero liberale del Novecento. È impressionante la sua attualità. Il fiscalismo è il vero male dell’Occidente europeo e lo è in maniera particolare dell’Italia, dove a un fisco onnipotente si associa una pubblica amministrazione inefficiente e una giustizia che non protegge abbastanza il cittadino dal Leviatano statale.

L’Italia si sta ribellando a questa situazione, che uccide lo sviluppo, e lo fa consegnando a un giovane leader tutta la sua speranza. Ecco, capisca Renzi che il male del paese è nello strapotere dello Stato sui cittadini, che si manifesta soprattutto nell’invasione senza riserve, senza ormai ritegno, nella loro sfera privata, per cavarne un gettito da buttare nella fornace di un debito pubblico irriducibile per effetto dell’assurdo vincolo europeo. Un particolare curioso: nel brano si cita la Svizzera come esempio di un paese che si ribella alle élite che, di destra o di sinistra, spingono sul fiscalismo per finanziare la loro onnipotenza sociale. Ebbene, è notizia di questi giorni che il popolo svizzero ha indetto un referendum sul segreto bancario. È stupefacente! In un mondo in cui le masse sono educate a pensare che il segreto bancario sia solo il paravento della frode e della violazione delle regole di cittadinanza, e osare difenderlo è mettersi contro la trasparenza, l’uguaglianza, la legalità e gli altri sacri valori del politicamente corretto, gli svizzeri ne colgono l’aspetto liberale, un modo per difendere il cittadino dal Leviatano, che ormai non conosce e non vuole confini e giurisdizioni. Consiglio ai lettori curiosi di seguire il dibattito che si svilupperà nel paese degli gnomi: io sarò per i difensori del segreto bancario, e mi appassionerò per la loro battaglia coraggiosa e solitaria, la battaglia della libertà contro i totem di un totalitarismo dolce.
Stefano Morri avvocato

Tempi.it 9 novembre 2014

Il pericolo dello statalismo non è scomparso col ripudio della politica di nazionalizzazioni e dell’ideologia dirigista. Sopravvive – forse nel suo aspetto più temibile per l’individualismo – nei metodi dell’amministrazione pubblica che allarga sempre più la sua attività.

La concentrazione amministrativa costituisce un pericolo in sé, perché aumenta, in proporzioni inquietanti, le spese dello Stato. Lo Stato in tutti i paesi occidentali persegue una politica di prestigio. Gli uffici statali prendono l’aspetto di veri palazzi, il cui numero si accresce con una stupefacente rapidità. L’amministrazione pubblica è stata creata per far fronte ai servizi pubblici. Sempre più essa viene chiamata a dirigere vere imprese di carattere economico e sociale. I vecchi metodi non possono soddisfare i nuovi bisogni. I servizi di trasmissione o di controllo contano quasi altrettanti impiegati dei servizi incaricati delle realizzazioni. Ne risulta un’enorme dispersione di energie, di tempo e di ricchezza.

La deriva dell’individualismo
È una verità irrefutabile che l’amministrazione pubblica per effettuare il medesimo lavoro di un’organizzazione privata, ha bisogno di maggior tempo, di più numeroso personale, di maggiori capitali. L’amministrazione pubblica che non cessa di svilupparsi per l’organizzazione di servizi sempre nuovi, regie economiche, società miste, assicurazioni sociali, grava dunque sempre più sulle pubbliche finanze.

Per far fronte a queste spese bisogna ricorrere al fiscalismo. Questo forma sempre più, negli stati occidentali, una forza immensa, distinta dallo Stato, che dà vita ad un nuovo diritto, che costituisce una delle più serie minacce contro il diritto individuale per il quale la civiltà occidentale si è sviluppata.

Per il fisco il cittadino non ha altra ragione d’essere che quella di fornire introiti allo Stato. Il fisco considera il contribuente quasi come un tempo il signore considerava il servo. La concezione individualista, che voleva che l’amministrazione dello Stato fosse a servizio del cittadino, ha dato luogo ad una concezione nuova che fa di ogni cittadino, non appena egli agisce, un “funzionario” su cui lo Stato ha diritto di esercitare un controllo, e che il fisco considera volentieri come un probabile delinquente.

Morte del senso civico
Inoltre l’ideale della solidarietà su cui si fonda la nozione liberale della società è abbandonata per quella della subordinazione dell’individuo, non allo Stato, mai servizi amministrativi, e in primo luogo al fisco. Il minimo gesto è sorvegliato dal fisco. Se un cittadino compra una casa, il fisco s’inquieta: donde gli son venuti i fondi che gli permetto una simile spesa? Non ha forse frodato il fisco? Se un artigiano assume un operaio, il fisco interviene per discutere l’ammontare degli introiti che egli dichiara. La legge ha dotato il fisco di un diritto di sorveglianza sulla contabilità di tutti gli uomini d’affari; ed impone ai cittadina che esercitano una professione liberale la tenuta di libri contabili. Ogni iniziativa deve immediatamente divenire oggetto di denunzie fiscali. Ogni guadagno prodotto dal lavoro è tassato, e il tasso dell’imposta si eleva progressivamente col reddito del lavoro. Questo significa che più si lavora, più si è tassati dal fisco. Ogni lavoratore indipendente deve, in media, consegnare al fisco un terzo dei proventi del suo lavoro. Più lavora, più paga; lo Stato pretenderà la meta, o anche di più, dei redditi del suo lavoro. Il risultato è che, stanco di lavorare quattro o anche sei mesi all’anno per lo Stato, il lavoratore limita il suo sforzo, che, al di là di un certo livello, è sproporzionato ai benefici che ne ritrae. Il fisco, d’altra parte, per applicare la progressività dell’imposta, cumula i redditi dei coniugi che lavorano insieme, ma non quelli di coloro che vivono in concubinaggio. Diviene così uno strumento di immoralità.

Il fiscalismo è in gran parte necessitato dalle spese assunte per attuare le leggi di sicurezza sociale. Ma la sicurezza sociale non si applica che alla classe operaia, si disinteressa generalmente degli indipendenti e della così detta classe “media”. Così i cittadini si trovano divisi in due categorie; quelli che lo Stato protegge e quelli che lo Stato opprime. I primi considerano lo Stato come una provvidenza, gli altri come un nemico. Per sfuggire al fisco, il contribuente è portato alla frode e questo tanto più per il fatto che le leggi fiscali sono fatte in previsione della frode probabile, particolarmente nella tassazione delle professioni liberali. Il contribuente che non froda ha l’impressione, appunto per questo, di essere una vittima o uno sciocco. Ne risulta un’evidente diminuzione dello spirito civico.

Il protogrillismo di Poujade
E questo tanto più avviene perché l’evoluzione politica toglie al cittadino ogni mezzo per resistere all’onnipotenza dello Stato. Gli resta il diritto di esprimere il proprio voto al momento delle elezioni. Ma sempre più il corpo elettorale è intruppato nei partiti che sono dominati da oligarchie. Poiché la politica diviene un mestiere che assicura onori e profitti, le oligarchie dei partiti si estendono e si trasformano in una classe privilegiata, i cui emolumenti politici sono esenti da imposte. L’opinione pubblica non può manifestarsi che con la mediazione dei partiti, che detengono i giornali. Ma i partiti sono raggruppamenti di interessi particolari, talvolta molto lontani dalla popolazione. In Svizzera i cittadini hanno la possibilità di manifestare la loro volontà con il referendum, che appare una salvaguardia contro l’onnipotenza delle oligarchie politiche e il mezzo per mantenere fra queste e il pubblico un contatto diretto. Ora il referendum in Svizzera ha quasi regolarmente sconfessato i partiti pronti a votare leggi di finanza o di spese sociali, che furono respinte a forte maggioranza dal corpo elettorale quando poté esprimersi liberamente.

L’impossibilità, specialmente per la classe “media” che non è inquadrata in organizzazioni professionali, di farsi sentire, ha determinato quella ribellione rappresentata in Francia dal movimento poujadista provocato dall’abuso dei metodi fiscali. E poiché questa ribellione non è inquadrata, rischia di cadere essa stessa in balìa di un’oligarchia autoritaria. Essa resta l’espressione del disagio che pesa sulla classe “media” in tutti i paesi occidentali.

L’intervento abusivo del fisco non presenta soltanto il pericolo d’isterilire le iniziative e di scoraggiare lo sforzo; costituisce inoltre, per tutta la società, una minaccia d’impoverimento. I paesi occidentali hanno raggiunto l’alto livello di vita di cui godono perché il liberalismo ha reso produttivo il risparmio. Il soprappiù dei redditi, non impiegati nel consumo, è stato utilizzato, per mezzo del credito, come una sorgente di produzione e, per conseguenza, di nuova ricchezza.

Un destino impoverito
Ora, lo Stato attualmente non s’interessa che del piccolo risparmio. Al di fuori di questo la politica fiscale consiste nell’“assorbire” tutti i redditi non utilizzati per affidarne l’uso allo Stato. Va da sé che i grossi redditi sfuggono facilmente al fisco perché si nascondono dietro le denunzie sapientemente adattate alle leggi fiscali, o cercano riparo in paesi stranieri. Ma i redditi medi non possono sfuggire al fisco che – con le tasse sui redditi e sulle successioni – li riduce sempre più severamente. Le somme disponibili per il capitalismo privato divengono dunque sempre minori, e quelle di cui s’impossessa lo Stato non cessano di aumentare. Ora, se il capitalismo privato utilizzava il risparmio per farlo profittare investendolo in affari industriali, lo Stato trasforma le somme che raccoglie in beni di consumo, le utilizza per previdenze sociali, per la costruzione di edifici e per i servizi pubblici, per la retribuzione degli impiegati. Ciò significa che il risparmio, un tempo creatore di ricchezza, diviene improduttivo; di più, provoca l’inflazione che, svilendo la moneta, diminuisce le fortune precedentemente acquistate.

L’eccesso di fiscalismo, considerato come un mezzo per permettere allo Stato di sovraccaricarsi di spese improduttive sempre più pesanti, porta inevitabilmente il paese ad impoverirsi. C’è qui un pericolo tanto maggiore in quanto le leggi sociali, che sono in parte all’origine del fiscalismo, presuppongono che i redditi del paese siano elevati; la diminuzione del reddito nazionale minaccerebbe tutto l’edificio della sicurezza sociale, fondato sulla prosperità del paese. La libertà individuale si è accresciuta insieme al livello di vita. Bisogna star attenti che il fiscalismo dello Stato, dominando la produttività del paese, non minacci nel medesimo tempo la libertà individuale.

La tendenza all’ugualitarismo procede di pari passo con il programma che vuol porre nelle mani dello Stato i mezzi di produzione e di credito. La conclusione non potrebbe essere che la limitazione dell’iniziativa privata, che ha sempre rappresentato in Occidente la base del progresso, tanto nel campo economico che nell’ambito intellettuale.

Alla tendenza statalizzatrice, egualitaria – e per ciò stesso autoritaria – il liberalismo americano oppone una nuova tendenza che cerca di risolvere i problemi sociali – quelli, almeno, che derivano dall’organizzazione del lavoro – con una collaborazione spontanea fra il capitale e il lavoro. In questa associazione, i cui risultati sono stati notevoli, il capitale rappresenta l’elemento creatore, il lavoro l’elemento sociale. Il capitale tende a conservare intatto il dinamismo dello sforzo, acuito dal desiderio del guadagno; il lavoro tende ad assicurare l’equa ripartizione dei profitti che sono stati realizzati. Alla statalizzazione, questo neoliberalismo oppone una specie di “collettivismo” spontaneo in cui la libertà sostituisce l’uguaglianza ed in cui la costrizione legale fa luogo all’alleanza fra le forze che debbono necessariamente concorrere alla creazione di nuove ricchezze.

C’era una volta l’America
In America, senza dubbio, il fiscalismo grava pesantemente sui contribuenti; ma in luogo di tendere a toglier loro la disponibilità del soprappiù dei loro redditi, cerca di lasciare intatta la disponibilità di una parte sufficiente, per non scoraggiare lo sforzo individuale e per conservare la possibilità di investimenti produttivi. La repubblica di Bonn ha adottato il medesimo principio fiscale.

L’unione, nel Patto atlantico, dei paesi dell’Europa occidentale minacciati dalla sclerosi che una legislazione fiscale e sociale troppo rigida rischia di provocare, e degli Stati Uniti che si orientano verso un’organizzazione sociale almeno altrettanto democratica ma più liberale di quella dei popoli occidentali, pur comportando diversi punti di vista e metodi diversi, farà forse nascere un equilibrio fra gli interessi sociali e la libertà individuale, da cui dipende, in ultima analisi, il destino della civiltà occidentale. n

Tratto da Jacques Pirenne, Storia del mondo contemporaneo, Sansoni, 1958

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