Ci eravamo impegnati a commentare nella “Pillola di Saggezza Settimanale”, nel corso dell’Anno Santo, le “Opere di misericordia corporali e spirituali”. Ma siamo costretti a rimandare l’avvio della trattazione alla prossima settimana poiché oggi vogliamo concentrarci sulla “Lettera aperta” che “l’Associazione Medici Italiani Contraccezione ed aborto” (che riportiamo in allegato) ha trasmesso al ministro della salute Beatrice Lorenzin, invitandola per concretizzare il “concetto di appropriatezza” della cura da lei più volte evidenziato, ad adottare un regime di “day hospital” nei confronti delle donne che praticano l’aborto assumendo la “RU 486”. Due “Pillole”: la “prima” composta da 600 milligrammi di mifepristone, uccide il feto; “la seconda”, da 400 milligrammi di misoprostol, provoca le contrazioni affinché il feto sia espulso. Nell’autorizzare la commercializzazione del farmaco, l’ AIFA (Agenzia italiana del farmaco), impose alla donna di assumere il medicinale in ospedale nel corso di un ricovero ordinario, dove dovrà rimanere ad attendere “l’espulsione del feto”, anche se la “Lettera aperta” riporta che la maggioranza delle donne richiedono dimissioni volontarie.
Nella “Lettera aperta”, sono presenti affermazioni assai discutibili soprattutto riguardanti “il rischio” per la donna, anche se i firmatari definiscono la RU 486 il metodo abortivo “più sicuro”. Ciò non risulta dai dati diffusi negli ultimi dieci anni.
Innanzitutto circa il 15% delle donne sono poi costrette a ricorrere all’intervento chirurgico essendo l’aborto chimico incompleto (fonte: New England Medical Journal 2005). Inoltre, possediamo vari studi che giustificano la nostra tesi; ne citiamo alcuni. L’“Australian Family Physician” esaminò circa 7000 aborti eseguiti tra il 2009 e il 2010 nello Stato dell’Australia meridionale. I risultati emersi segnalarono che le complicazioni conseguenti all’aborto chimico (dalle infezioni batteriche alle emorragie, ai shock settici) furono più frequenti di quelle dell’aborto chirurgico. I dati illustrati dalle autrici, Ea Mulligan e Hayley Messenger, riferiti al primo trimestre di gravidanza, indicarono che il 3,3% delle donne che usarono la pillola RU486 dovettero rivolgersi ai pronto soccorso di un ospedale contro il 2,2% di coloro che subirono un intervento chirurgico. Uno altro studio pubblicato da “The Annals of Pharmacotherapy” (febbraio 2008) che analizzò anch’esso i “disturbi collaterali” provocati dalla Pillola su 607 donne, segnalò 237 emorragie e 66 infezioni a volte accompagnate da choc settici; altre subirono interventi d’urgenza per gravidanze extrauterine; unicamente il 30% non ebbero “incidenti di percorso”.
La RU 486 ha provocato anche dei morti. Ventisette, sono quelle denunciate alla comunità scientifica, ma se ne sospettano molte di più. Un caso emblematico fu quello dell’inglese Manon Jones. Aveva 18 anni quando morì il 27 giugno 2005 all’ospedale Southmead di Bristol ma dell’episodio si venne a conoscenza solo dopo tre anni. La prima vittima italiana fu all’ospedale “Martini” di Torino nel 2014, dove una donna di 37 anni, dopo la somministrazione del “misoprostol” ebbe una grave crisi cardiaca con esito fatale, nonostante i tentativi dei medici di salvarla.
Gravi effetti collaterali e decessi furono segnalate dalla stessa industria produttrice del farmaco, la francese “Exelgyn”. Per questo, negli Stati Uniti, la “Food and Drug Administration”, (l’Agenzia del farmaco) impose l’applicazione di una “banda nera” sulle confezioni del medicinale.
I dati, inoltre, mostrano che la Pillola ha un’incidenza di mortalità dieci volte superiore rispetto all’aborto chirurgico (aborto chirurgico: 1 morto su 1milione; aborto chimico: 1 morto su 80.000). Per questo Severino Antinori, famoso per la sue posizioni rispetto alla fecondazione in vitro e alla clonazione umana, dichiarò: “Basta con questa ipocrisia. Basta con le informazioni false. Smettiamola di dire che la pillola Ru486 aumenta la libertà della donna. Aumenta soltanto la sua libertà a farsi del male. L’intervento tradizionale, in sala chirurgica, è infinitamente più sicuro, oltre che più veloce”.
(Giornale.it 4 aprile 2010 http://www.ilgiornale.it/news/basta-bugie-quel-farmaco-intollerabile-tortura.html)
La “Lettera aperta”, evidenzia inoltre, che all’estero la metodologia si svolge in regime di day hospital; solo noi e pochi altri Paesi siamo retrogradi! E’ vero, alcune Nazioni sono anche più evolute; la donna si reca in farmacia, acquista questo veleno e a casa assume la prima pillola e poi termina l’aborto nella sua abitazione, o in viaggio, o in ufficio, magari al bar; insomma dove capita. E tutto ciò nell’assoluta e agghiacciante solitudine e nella più disperata indifferenza, con rischi anche mortali che comporta.
Da notare, inoltre, che la “Lettera aperta” mentre cita la legge 194/1978 negli articoli 8 e 15 per giustificare le proprie tesi, dimentica che la RU 486 viola questa Legge almeno in due articoli. L’impossibilità, per mancanza di tempo, di offrire alla gravida una “pausa di riflessione” di sette giorni da quando richiede la pratica dell’aborto (cfr.: art. 4) e che l’intervento dovrebbe essere praticato prevalentemente “da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale…” (art. 8).
Il quotidiano “Il Manifesto” che riporta la notizia a firma di Mirella Parachini (11 dicembre 2015, pg. 14) precisa che hanno aderito all’iniziativa anche Emma Bonino, l’Associazione “Luca Coscioni” e Carlo Flamigni.
Da quanto affermato, la logica richiesta da porre al Ministro non è quella di eliminare questo “ricovero inappropriato”, ma l’interrogativo: “perché continuare a commercializzare un farmaco così pericoloso?”.
LETTERA AL MINISTRO DELLA SALUTE DELL’ASSOCIAZIONE MEDICI ITALIANI CONTRACEZZIONE E ABORTO
Gentile Ministra Lorenzin,
Lei sostiene – a nostro avviso giustamente- che il concetto di appropriatezza “si ponga ormai al centro delle politiche sanitarie nazionali, regionali e locali, costituendo la base per compiere le scelte migliori, sia per il singolo paziente che per l’intera collettività: il ricorso inappropriato alle prestazioni rappresenta infatti un fattore di notevole criticità, in grado di minare alle fondamenta la sostenibilità e l’equità del sistema.” Secondo le valutazioni del Dicastero da Lei diretto, evitare l’inappropriatezza nelle prescrizioni e nelle prestazioni potrebbe portare ad un risparmio di oltre 10 miliardi di euro.
Vogliamo allora richiamare la Sua attenzione su una grossolana inappropriatezza, che pesa significativamente sulle casse del nostro Sistema Sanitario Nazionale e che riguarda l’applicazione della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, con particolare riferimento al metodo farmacologico.
Come Lei sa nel nostro paese dopo il 2009 è possibile interrompere una gravidanza indesiderata con il metodo farmacologico entro la settima settimana di amenorrea. Poiché la legge 194 raccomanda “ la promozione delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza” (art. 15) tale metodo va favorito in alternativa alla procedura chirurgica, poiché sicuro e considerato tra i metodi di sceltaper le IVG nelle prime settimane di gravidanza da tutte le più importanti linee guida internazionali.
In molti Paesi del mondo le “pillole abortive” vengono dispensate in regime ambulatoriale, in strutture analoghe ai nostri consultori o addirittura dai medici di medicina generale: in Francia (ma non solo) dal 2004 esiste una rete sanitaria “medico curante-ospedale”rete finanziata con fondi pubblici che permette di effettuare una IVG farmacologica al di fuori della struttura ospedaliera.
Questo dovrebbe essere possibile anche in Italia la legge 194 del 1978prevede che: “Nei primi novanta giorni gli interventi di interruzione della gravidanza dovranno altresì poter essere effettuati, dopo la costituzione delle unità socio-sanitarie locali, presso poliambulatori pubblici adeguatamente attrezzati, funzionalmente collegati agli ospedali ed autorizzati dalla regione. (art.8)
Nel 2010 il Consiglio Superiore di Sanità, su richiesta del Ministero della Salute e in assoluta discordanza con i dati di evidenza scientifica, ha sostenuto in ben tre pareri,che l’interruzione volontaria di gravidanza con il metodo farmacologico deve essere eseguita in regime di ricovero ordinario, “fino alla verifica della completa espulsione del prodotto del concepimento”. In altre parole: per assumere due farmaci si prevede un ricovero di almeno di tre giorni.
Non essendo il parere del Consiglio Superiore di Sanità vincolante, alcune Regioni hanno adottato il regime di ricovero in Day Hospital per la procedura farmacologica di IVG , seguendo un criterio di maggiore appropriatezza sia clinica che organizzativa dal momento che è appropriato il setting assistenziale che arreca migliore o identico beneficio al paziente con minor impiego di risorse.
In questi anni i dati sull’IVG farmacologica riportati dal suo stesso Ministero confermano che le donne che vi si sono sottoposte hanno scelto nella stragrande maggioranza le dimissioni volontarie dall’ospedale,senza che questo abbia comportato un aumento delle complicazioni. Tali dati sono sovrapponibili a quelli riportati nel resto del mondo, dove la procedura viene eseguita per la gran parte in regime ambulatoriale.
Perché dunque in Italia dobbiamo ancora occupare un letto ospedaliero quando non vene è necessità?
Gentile Ministra Lorenzin,
in virtù dello sforzo cui Lei chiama tutti noi, medici e cittadini, al fine di migliorare l’appropriatezza delle prestazioni, Le chiediamo di adoperarsi per rendere accessibile l’interruzione volontaria di gravidanza con il metodo farmacologico in regime di Day Hospital e, quando possibile, nei consultori familiari e nei poliambulatori, come previsto dall’articolo 8 della legge 194.
Le risorse finanziarie così risparmiate potrebbero entrare a far parte degli investimenti da Lei stessa auspicati, fra tutti il potenziamento della rete dei consultori e un più facile accesso alla contraccezione, onde evitare le gravidanze indesiderate e concretamente il ricorso all’aborto.
(http://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=34342)