SOCIETA’ – Diffamazione, se il giudice ha (quasi) sempre ragione

Nei giorni scorsi il leader della Lega, col suo linguaggio un po’ crudo, ha apostrofato in maniera un tantino inelegante i magistrati. Dal palco del congresso piemontese del Carroccio, difendendo un assessore leghista coinvolto nella “rimborsopoli” ligure, Matteo Salvini ha tuonato contro «quella schifezza che è la magistratura italiana». I toni ricordano quelli berlusconiani ed è evidente che denunciare l’imparzialità della magistratura solo quando si viene toccati da un’inchiesta può togliere credibilità alle accuse mosse.

Tuttavia, al netto di inevitabili strumentalizzazioni politiche e partitiche, in Italia il nodo della magistratura politicizzata, che spesso entra a gamba tesa nella vita delle istituzioni rappresentative alterandola, condizionandola e orientandola verso direzioni che a volte appaiono predeterminate, rimane in cima alle emergenze da affrontare. Senza contare che il meccanismo delle porte girevoli, con toghe che entrano in politica e, una volta terminata quell’esperienza, tornano a ergersi a terzi tra le parti, equivale a una prassi davvero discutibile, tipicamente italiana. Alcuni dati, però, concorrono a rafforzare il quadro di una vera e propria casta, quella delle toghe, sempre lesta a sottrarsi ai meccanismi della responsabilità e molto più incline alle rivendicazioni corporative e alla difesa di privilegi incompatibili con un’idea di democrazia basata sulla effettiva tripartizione dei poteri e su quell’opportuno e imprescindibile meccanismo di pesi e contrappesi che dovrebbe governare la dialettica tra i poteri stessi. LEGGI1

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