Burocrazia

Le piogge torrenziali di queste settimane stanno mettendo a nudo il disastro idrogeologico in cui versa l’Italia. Un disastro che vede, sciaguratamente, il Paese unito: da Nord a Sud è un moltiplicarsi di emergenze, di tragedie, di lutti. Quando queste tragedie accadono lo sguardo dell’opinione pubblica è immediatamente indirizzato a considerare gli oltraggi all’ambiente che sono all’origine di questi disastri. Con un invito ad essere più buoni nel futuro. A vederla solo in questi termini è riduttivo ed inefficace. Significa non darsi carico della paralisi in cui ci stiamo avvitando ogni giorno di più.

Dietro il disastro idrogeologico è apparso un altro disastro, anche questo presente a Nord e a Sud, capace di toglierci ogni futuro: il disastro istituzionale. Le tragedie di questi giorni determinano inevitabilmente il classico rimpallo delle responsabilità. E, in mezzo al polverone, vi è un dato che sta emergendo con sempre maggiore chiarezza: in molti casi le tragedie sono dovute alla mancata esecuzione di lavori, per i quali i soldi erano stati stanziati, ma che non è stato possibile realizzare per ragioni burocratiche. Quanto accaduto a Genova, e di cui si è già dato conto in questo giornale, e cioè dell’esistenza sia dei progetti e sia dei fondi per eseguire i lavori che avrebbero evitato la tragedia, non è un’eccezione.

Nel caso di Genova si è trattato dei ricorsi al Tar, in altri casi si tratta di uffici che non svolgono la necessaria istruttoria, di comuni che non deliberano, di enti pubblici e privati che intervengono nei processi decisionali bloccandoli. Cosa è successo? Perché è tutto fermo? Perché non si riesce a fare neppure ciò che è assolutamente necessario? La questione ha a che fare con il modo in cui abbiamo organizzato la nostra democrazia.

Si è ritenuto, in un crescendo che ha raggiunto il suo apice nella riforma costituzionale del 2001, che democrazia significhi moltiplicare all’infinito i centri di decisione. L’effetto è un sistema nel quale la stessa cosa è vista, controllata, decisa, ostacolata da un numero incalcolabile di soggetti. Ed ognuno di questi ha un potere di interdizione. Qualsiasi opera pubblica deve affrontare il vaglio di: stato, regione, provincia, comune, circoscrizione, ciascuno nelle sue varie articolazioni (uffici tecnici, Arpat, Asl, etc.). Se tutto va bene, poi, vi è sempre un potere di intervento dei Tar e delle Procure delle Repubbliche. Infine, non va neppure sottovalutato il potere di interdizione dei movimenti privati, attraverso assemblee, cortei, manifestazioni, etc.

In una situazione del genere diventa impossibile fare qualsiasi cosa. Tanto più che su questa landa desolata soffia costante il grido di “al ladro al ladro” per scoraggiare anche i temerari che volessero assumere il rischio di fare. E’ stata emblematica la circostanza che il Governatore della Liguria, nel dare la notizia della decisione di dare corso ai lavori a Genova, ha ritenuto necessario premettere che si era consultato con l’avvocatura pubblica. A questo si deve aggiungere che, quando si giunge al traguardo, tutto costa molto di più. Si fa un confronto, spesso, tra il costo delle opere dell’alta velocità in Italia ed in Francia, per dimostrare il peso della corruttela che graverebbe nel primo caso.

Si dimentica, o si finge di dimenticare, che, a parte la diversa conformazione geologica, in Italia l’esecuzione di un’opera pubblica richiede non solo tempi infiniti per i permessi amministrativi, ma anche che ogni collettività interessata riceva, per avere il suo consenso, un risarcimento, consistente in altre opere: strade, ponti, etc. Insomma, ci siamo cacciati in un ginepraio di centri di interdizione, nei quali la burocrazia, amministrativa e giudiziaria, troneggia e nel quali basta anche un piccolo gruppo per decretare la paralisi.

Astolfo di Amato

Il Garantista 15 novembre 2014

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