Ebola

Siamo abituati ad ascoltarli distrattamente mentre dalla tv intonano accattivanti motivetti natalizi. Mai come in questo periodo i nostri bambini –  figli di un Occidente che spesso li usa senza vergognarsene per venderci di tutto – appaiono sorridenti sui nostri schermi ultrapiatti: guance rosa, voci tenere, recitano non solo negli spot di giocattoli, ma anche in quelli di automobili, telefonini, articoli per la casa.

Li guardiamo e pensiamo a quanto siamo fortunati a farli crescere in un mondo in cui, si dice, “già dalla nascita hanno tutto”. Solo molto raramente arriva l’immagine che spezza questo spensierato ritratto: solitamente è la raccolta fondi di qualche Ong a mostrarci bimbi emaciati, smunti, abbandonati, l’altra faccia di un mondo che in troppi hanno smesso di guardare.

Ci si interessa alle emergenze se queste possono riguardarci direttamente, altrimenti, con il passare dei giorni, finiamo per ignorarle. Basti pensare a ebola: nei tre Paesi africani più colpiti – Liberia, Sierra Leone e Guinea – si continua a morire. E le prime vittime sono proprio i bambini: oltre a chi muore, c’è chi resta orfano di padre o di madre. Secondo gli ultimi dati sono 20mila i minori che hanno perso almeno un genitore a causa del virus. Bimbi che, oltre a crescere più soli, subiranno lo stigma sociale causato dalla malattia. Di più: sono 5 milioni i minori che non hanno potuto iniziare la scuola nei tre Paesi più colpiti. Scuole chiuse per paura del contagio o perché servono da centri di raccolta dei contagiati. È così che gli effetti del virus rischiano di avere conseguenze negative non solo nell’immediato, ma anche sul futuro di un’intera generazione.

E non ci sono solo le malattie: ce lo ha ricordato ieri l’Unicef, con gli ultimi dati sulla condizione dell’infanzia. 230 milioni di bambini vivono in aree colpite da conflitti armati. Arruolati, venduti, rapiti, comunque traumatizzati, bimbi che pesano sulle coscienze anche del nostro mondo. Quello che troppo spesso fa finta di dimenticare, chiuso a riccio, narcotizzato dall’idea di infanzia felice propinata nella melassa da spot tv.

Paolo M. Alfieri

Avvenire.it 9 dicembre 2014

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