Franca Benini

Marcello Orzalesi, neonatologo presso l’Ospedale Bambino Gesù, illustra le problematiche delle cure palliative pediatriche nei nati prematuri.

Secondo la dottoressa Franca Benini, specialista in terapia del dolore, le cure palliative pediatriche sono “un diritto” ed economicamente non gravano sul sistema sanitario.

 “Nel bambino il dolore è molto frequente, soprattutto nel bambino inguaribile. Il neonato non solo sente più dolore dell’adulto, ma il dolore può lasciare delle tracce persistenti; ciò significa che delle esperienze molto dolorose in epoche molto precoci della vita modificano il sistema della percezione del dolore e possono farlo anche in modo permanente”.

È la riflessione a partire dalla quale cui Marcello Orzalesi, primario della Divisione di Terapia Intensiva Neonatale dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma e Direttore del Dipartimento di Neonatologia Medica e Chirurgica, muove per parlare del problema delle cure palliative pediatriche.

Sui problemi legati alla diffusione di queste cure il medico chirurgo ha risposto  alle seguenti domande:

Quali caratteristiche ha il paziente pediatrico rispetto all’adulto?

Le sue caratteristiche rispetto all’adulto è che si tratta di un organismo in continuo sviluppo e in evoluzione. Tra un neonato e un bambino di sei anni ci sono più differenze che tra un bambino di sei anni e un adulto. Per questo occorre aggiustare il dosaggio dei farmaci, l’approccio e la comunicazione tenendo conto dello sviluppo di un bambino. La seconda differenza è che di molti farmaci, utilizzati per la terapia del dolore di un adulto, non vi sono confezioni adatte per un bambino piccolo, per cui vi è il problema di usare i farmaci cosiddetti off-label. Il terzo nodo è il coinvolgimento molto maggiore della famiglia, in quanto spesso i genitori sono il tramite comunicativo del bambino.

Quali sono le conoscenze scientifiche sullo sviluppo della percezione del dolore e sul dolore in fase neonatale?

Il bambino prematuro percepisce il dolore più dell’adulto e ne modifica la percezione. Il bambino mostra più tardi una soglia del dolore modificata: ad esempio a sei mesi, quando farà le vaccinazioni, sentirà più dolore degli altri. È inoltre possibile che si producano delle modificazioni dell’espressione dei geni ereditati dalla madre che interferiscono sullo sviluppo del cervello: è stato dimostrato, nei prematuri che devono fare molti prelievi, la correlazione del numero di punture ricevute durante la degenza e lo sviluppo di sostanza bianca e di sostanza grigia del cervello.

Come è vissuta attualmente la nascita prematura di un figlio dai genitori e come si sono evolute le aspettative di vita in questo campo?

Innanzitutto il bambino viene rapidamente separato dalla madre per essere portato in terapia intensiva. La madre nutre rabbia e senso di colpa, poi pian piano acquisisce la capacità di relazionarsi con il bambino. Per questo è importante che le terapie intensive neonatali siano aperte per quanto possibile all’accesso dei genitori, sia al papà che alla mamma, e che essi vengano coinvolti nell’assistenza al proprio bambino; inoltre la comunicazione del personale di assistenza con i genitori è fondamentale e non è facile. La aspettative di vita ormai sono buone, adesso la maggior parte dei bambini che nascono a ventiquattro settimane sopravvive.

Cosa si sta muovendo a favore delle cure palliative pediatriche?

Il recente Congresso internazionale organizzato dalla fondazione Maruzza ha messo in luce come in tutti i paesi si stiano cercando tutte le possibili tecniche e approcci che possano migliorare la qualità di vita del bambino: sollevarlo dalla sofferenza, cercare di mantenerne una vita relazionale con i compagni, gli amici e i genitori.

Le cure palliative, in particolare quando riguardano i bambini, non devono essere necessariamente associate a situazioni relative a pazienti “terminali” e rappresentano la vera alternativa all’eutanasia. Intervista a Franca Benini, responsabile del Centro Regione Veneto terapia del dolore e cure palliative pediatriche.

Quali sono le maggiori preoccupazioni che vengono associate al termine “cure palliative”?

Sulle cure palliative pediatriche c’è una reazione di esclusione: chi ha un malato, ha paura che “cura palliativa” significhi “mio figlio sta morendo”, dunque ne esclude la possibilità; chi invece è al di fuori, appena sente associare i termini “bambini” e “cure palliative”, finisce con l’evitare l’argomento. Mentre le cure palliative per l’adulto hanno già una loro storia, le cure palliative pediatriche devono ancora dimostrare che esistono.

Cosa permettono le cure palliative oggi per questi bambini?

Per prima cosa permettono di tornare a casa. Essere a casa per un bambino significa ricominciare a vivere; il bambino ricomincia a vivere e ad andare a scuola, a rivedere gli amici, a fare la spesa con i genitori… Accanto a questo le cure palliative danno l’assoluto controllo dei sintomi e il recupero delle funzioni che possono essere recuperate, ottimizzandone i risultati: permettono al bambino di essere più bambino possibile.

Perché è nata la carta dei Diritti del bambino morente? Potrebbe essere applicabile a qualsiasi situazione e contesto sociale internazionale?

Certamente sì, mancava qualcosa di pratico che partisse da motivazioni etiche, filosofiche ma soprattutto cliniche, e che fosse disponibile per tutti gli operatori che seguono i bambini negli ospedali, in pronto soccorso, a casa o in terapia intensiva: la messa insieme di più aspetti ha potuto portare a costruire una carta applicabile in tutte le realtà.

Non poche persone sostengono che non abbia senso investire tanto denaro per i malati terminali: perché? È davvero anti-economico?

Quando si parla di cure palliative non si parla solo di terminalità, si parla di inguaribilità: molti pazienti pediatrici nascono già inguaribili ma spesso vivono per molto tempo, anche anni. Noi ci occupiamo di questo tempo dell’inguaribilità. L’approccio alle cure palliative pediatriche è stato studiato anche in termini di efficacia di costo, e ormai sono molteplici i lavori che confermano questo: se si attua un sistema di cure palliative pediatriche a rete, con un centro unico che le gestisce, non solo i bambini vivono meglio e vivono di più, ma si risparmia. Come? Perché molti di questi bambini che sono a casa sarebbero altrimenti in ospedale in ambito critico. Certo, c’è una spesa di start up per creare il team e l’hospice, ma si è visto che a lungo andare questo viene recuperato in maniera importante; inoltre, sull’altro piatto della bilancia, vi è il livello di qualità dell’assistenza e soprattutto di qualità della vita in famiglia, radicalmente diversa: alcuni bambini in terapia intensiva, chiusi per anni, arrivavano anche a 150 giorni di ricovero annuo; mentre gli ultimi dati ci permettono di dire che, dei bambini presi in carico, calano bruscamente il numero e la durata dei ricoveri, e soprattutto i giorni di permanenza in ambito di terapia intensiva.

Perché sarebbe opportuno che i governi e il leader religiosi si impegnino a favore di queste cure?

In Italia abbiamo una legge ottimale, una delle leggi di riferimento a livello europeo ma anche al di fuori dell’Europa. Adesso dobbiamo partire dalla disponibilità di normativa che abbiamo, e portarla al concreto. Negli ultimi dieci anni il numero di questi bambini affetti da malattie inguaribili è esploso: in Italia ce ne sono più di 35mila e questi numeri rendono ragione della necessità di una risposta assistenziale.

In Olanda è stata avviata da tempo la pratica dell’eutanasia per i bambini. Quali dati risultano, su questo  modo di procedere, dal punto di vista scientifico pediatrico?

Chi fa cure palliative è assolutamente contrario all’eutanasia, perché “eutanasia” significa di fatto fallimento delle cure palliative: se io riesco a fare il mio lavoro contro il dolore, posso aiutare la famiglia e il bambino ad avere un giusto approccio all’inguaribilità. Non è facile, ma posso aiutare quella famiglia e quel bambino a rendere il tutto meno pesante. Sono quasi trent’anni che faccio questo lavoro ma nella mia esperienza nessuno mai mi ha chiesto di voler morire. La disperazione e l’ansia sono frequenti, ma i genitori non te lo chiedono e i bambini sono delle persone speciali: tu controlli loro il sintomo, li proponi all’interno di una vita sociale, e loro ripartono; è più un problema nostro, degli adulti. I bambini hanno una marcia in più.

Possiamo sperare che la sensibilizzazione alle cure palliative possa offrire un’alternativa più umana all’eutanasia?

Secondo me l’eutanasia non ha alternative, mentre le cure palliative sono un diritto: deve essere chiarito questo, qual è l’obiettivo della medicina? È sbagliato pensare che sia sempre quello di guarire, perché altrimenti non moriremmo mai. Se noi partiamo da questo concetto, che la medicina non ha le potenzialità per guarire sempre, la medicina è solo uno strumento per curare le persone. Le cure palliative fanno parte della medicina, e riescono a curare i bambini anche nel percorso dell’inguaribilità. Nell’hospice dove lavoriamo si vive, si mangia, si lavora tantissimo; la stessa cosa si fa in casa, ma certo non si parla di morte, si parla di vita. L’eutanasia non ha alternativa, è una scelta sbagliata di fare medicina.

Maria Gabriella Filippi

Zenit.org, 13-14 febbraio 2015

16 febbraio 2015

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