giovani e lavoro

Avvenire.it, 29 aprile 2017

Primo Maggio. Non ci sarà lavoro senza più cura

Un buon modo per festeggiare questo Primo Maggio potrebbe essere quello di pensare a un giovane senza lavoro e adoperarsi per lui o per lei

È difficile far festa in questo Primo Maggio. Come celebrare la festa del lavoro, quando augurare “buon lavoro” – soprattutto ai giovani – sta diventando imbarazzante, perché è un augurio troppo spesso irresponsabile, in una società che sta distruggendo il lavoro? Che festa è oggi per chi non lavora mai o per chi è costretto a lavorare anche in giorni come questo per consentire i nostri riti consumistici? Eppure, dobbiamo continuare a far festa, anche e soprattutto per chi non può festeggiare. E una festa che celebra conquiste avvenute “dal basso”, anche grazie a eventi tragici, ci ricorda che i passi avanti hanno bisogno di consapevolezza e di impegno collettivo: di un patto per il buon lavoro.

Oggi al centro del nostro patto dovrebbero essere i giovani, nella consapevolezza che «la degradazione di non trovare lavoro, avendone le attitudini e la volontà, mortifica e inasprisce» (Federico Caffè). L’elevato tasso di disoccupazione e il preoccupante dato sui giovani inattivi, insieme alle trasformazioni tecnologiche in atto, che lasciano presagire una drastica riduzione della quantità di lavoro umano necessario alla produzione di beni e servizi, ci fanno rimanere con il fiato sospeso. Ma è interesse della collettività che la disoccupazione diminuisca: se contrapponiamo i diritti dei lavoratori a quelli dei disoccupati non stiamo ragionando correttamente, perché adoperarsi affinché il lavoro aumenti significa star meglio tutti. E qui si apre una nuova sfida per il movimento sindacale, che mai come oggi deve tornare a combattere per chi il lavoro non ce l’ha.

È il “lavoro del non ancora” il test della qualità morale del nostro tempo. Proviamo a fare un ragionamento economico di fronte alle trasformazioni e all’automazione del lavoro: se per la produzione di determinati beni e servizi oggi abbiamo bisogno di un certo numero di persone e con le trasformazioni domani potrebbero essere in meno, lo scenario più comune è quello di meno persone che lavorano e guadagnano, di alcune altre che possono reimpiegarsi in produzioni più sofisticate, di un aumento comunque della disoccupazione, fronteggiata magari con un assegno sociale per sopravvivere. Tutto questo comporta una diminuzione di consumi e investimenti. E se la domanda diminuisce, ci sarà meno produzione, e così via. È lo scenario che si sta realizzando.

Un secondo scenario che sta prendendo piede è quello di redistribuire i maggiori redditi generati dalla tecnologia in modo che gli esclusi dal lavoro non siano totalmente esclusi dal consumo, uno scenario, però, che non può lasciar tranquillo un Paese che nell’articolo 1 della propria Costituzione ha voluto scrivere il sogno di una Repubblica «fondata sul lavoro», perché il lavorare è qualcosa di molto più grande di un semplice mezzo per poter consumare. C’è anche un terzo scenario. Mantenere tutte le persone impiegate in una produzione, come diceva 40 anni fa Federico Caffè, facendole lavorare 6 ore in un giorno, invece che 8, ma pagando in una giornata lo stesso stipendio di prima (qualcosa che grazie alle tecnologie è molto più realistico di ieri). Così facendo si potrebbe arginare la disoccupazione, non si abbasserebbe il livello della domanda, si libererebbero ore che potrebbero essere impiegate per la cura dei bambini, degli anziani, dei più deboli, in famiglia e nei quartieri di riferimento, e per la coltivazione delle nostre relazioni e della nostra umanità.

È un qualcosa di diverso dall’antico slogan “lavorare meno, lavorare tutti”: è dire che lavoro e cura di sé e degli altri sono due dimensioni coessenziali della vita e ci rendono più umani. Un cambiamento così importante nel modo di intendere il lavoro e la cura è uno di quei processi che richiedono proteste e conquiste collettive. È un dono all’intera società che oggi può venire principalmente e, forse, solamente da voci di donna. Sì, perché tradizionalmente il ruolo della cura è stato attribuito alle donne, che oggi, se vogliono lavorare, devono dividersi, a volte in maniera estenuante e non sostenibile tra lavoro e attività di cura. Ma se la cura è una dimensione essenziale dell’essere umano, e non si è pienamente umani se non ci si prende cura degli altri (anche pulire una stanza è prendersi cura di chi dovrà abitarla), allora tutti dovremmo diventarne più consapevoli.

Ritroveremo un nuovo rapporto con il lavoro, se troveremo un nuovo rapporto con la cura, uomini e donne insieme. E cura oggi significa anche prendersi cura dei giovani che non trovano lavoro. Una mamma non può far festa se vede che il proprio figlio non riesce a realizzare le sue potenzialità. Allora un buon modo per festeggiare questo Primo Maggio potrebbe essere quello di pensare a un giovane senza lavoro e adoperarsi per lui o per lei. Stargli a fianco per fare emergere e rendere visibili a lui e agli altri le sue potenzialità, i suoi talenti. Non possiamo farlo per tutti i giovani, ma per uno sì. In una civiltà che sempre più sogna il consumo dobbiamo tornare a sognare il lavoro, e sognandolo, renderlo possibile.

Alessandro Smerilli

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