Dicembre 2016: durante il periodo natalizio, Kate James e Tom Evans, entrambi ventenni, fecero una corsa all’ospedale per ricoverare il figlio Alfie, preda di convulsioni e di un lento e progressivo deterioramento delle funzioni neurologiche acquisite nei suoi primi sette mesi di vita. Fu l’inizio di un lungo ricovero presso l’Alder Hey Hospital di Liverpool, durante il quale le condizioni di Alfie andarono progressivamente deteriorandosi.
Attualmente il piccolo Evans è allettato, intubato, in coma, sotto l’effetto di sedativi e farmaci.
A distanza di un anno i suoi genitori, sotto Natale, fanno un’altra corsa, questa volta verso il mondo esterno all’ospedale, tramite Facebook, per chiedere aiuto a strappare loro figlio dall’unica e ultima offerta che viene loro fatta: staccare la spina. Vorrebbero trasferirlo all’Ospedale Bambin Gesù di Roma, dove verrebbe fatto respirare tramite tracheotomia e nutrito tramite PEG, ma la High Court inglese ha rifiutato. Una nuova udienza è attesa prossimamente.
Alfie Evans, ostaggio dell’Alder Hey Hospital, come prima di lui Charlie Guard, ostaggio del Great Ormond Street Hospital, e come prima di loro e dopo di loro, altri bambini, affetti da malattie gravi, dipendenti da supporti intensivi per il sostegno delle funzioni vitali, con o senza diagnosi certa, a combattere per chiedere che la loro vita venga riconosciuta degna di essere vissuta. Ma riconosciuta da chi? Da quegli stessi medici che ogni giorno combattono per rianimare, assistere, curare piccoli pazienti, i neonati, a cui un pesante destino minaccia la vita agli albori della loro vita.
Eppure a quegli stessi medici bisogna implorare un diritto, il diritto alla vita perché in determinate situazioni quando sono al cospetto di bambini che portano sulle loro spalle una patologia grave, di natura sconosciuta, come nel caso di Alfie, o accertata, come nel caso di Charlie, vedono solo un’esistenza inutile, un non senso, un peso, la cui unica soluzione è la sospensione (withdrawing) dei trattamenti in atto.
Ma chi sono questi sanitari che da un lato curano con tanta dedizione e dall’altro lato eliminano la sofferenza, eliminando il sofferente? Sono medici che lavorano presso due ospedali, rispettivamente il Great Ormond Street Hospital for Children (GOSH) di Londra e l’Alder Hey Childern’s Hospital di Liverpool, due eccellenze nel sistema nazionale di assistenza sanitaria inglese (National Health Service, NHS). Il GOSH è stato il primo ospedale pediatrico sorto su territorio inglese a metà Ottocento, esclusivamente dedicato all’assistenza dei bambini; e il secondo è considerato il più grande ospedale pediatrico del Regno Unito. Non due realtà di periferia, non due ospedali a basse risorse, non due sistemi autoreferenziali. Due ospedali che aderiscono alle linee guida nazionali, ai protocolli internazionali, alle raccomandazioni dell’organo inglese che si occupa di questioni etiche in biologia e medicina, The Nuffield Council on Bioethics.
Teoricamente il Regno Unito si proclama contrario all’eutanasia, ma i due casi di cui sopra sono due casi sporadici, o sono la punta di un iceberg che sta affiorando, ma preesistente, di una realtà ben più ampia, che finora ha agito indisturbata, e sotto altro nome, il cosiddetto best interest?
Il principio del miglior interesse è centrale nella pratica medica e nella legge inglese. In ogni situazione che interessa il bambino il suo miglior interesse deve essere preso in fondamentale considerazione (The Nuffield Council on Bioethics). Pacifico, ragionevole. Siamo tutti d’accordo che chi prende decisioni su un neonato lo debba fare nel suo miglior interesse. Ma la domanda è: quale è il miglior interesse e chi lo stabilisce? Il grande e reale rischio, e i fatti lo dimostrano, è che l’interesse sia individuato in termini di qualità di vita, controversa e soggettiva categoria, dipendente dai modelli antropologici di riferimento, perdendo di vista l’unica e oggettiva categoria connessa all’esistenza di un essere umano: la sua dignità intrinseca.
Un approccio di questo genere implica che il neonato, il lattante, o prima di loro il feto, siano sotto l’arbitrio di chi deciderà in un verso o in un altro a seconda che la spesa della società sia prioritaria su quell’essere umano, il peso per la famiglia su quell’altro essere umano, il non corrispondere agli standard di normalità su quell’altro.
Se si procede nella lettura del The Nuffield Council on Bioethics, così si pronuncia riguardo alle decisioni: genitori, medici e altri soggetti coinvolti nel processo decisionale possono avere idee diverse su ciò che è nel migliore interesse del bambino; oltre alla soggettività quindi il rischio di contrasto tra le parti. In questi casi in Inghilterra, come in altri Paesi europei, i desideri dei genitori vengono sottoposti alla decisione dei tribunali (Medical and Legal Establishments). Una vittoria per Charlie, o per Alfie, costituirebbe un pericoloso precedente per queste potenti istituzioni, che non avrebbero più la prima e ultima parola.
Vi è ancora un ultimo punto da chiarire su come sia riuscita ad entrare l’eutanasia in un Paese che si dichiara contro l’eutanasia: abbiamo visto la “porta”, il miglior interesse; abbiamo visto la modalità in caso di contenzioso, l’Alta Corte; ma ci manca il “mezzo”, ovvero la prassi. Esiste un vero e proprio protocollo, il Liverpool Care Pathway (LCP), che descrive la procedura per la sospensione di nutrizione e idratazione. Introdotto per procurare la morte a pazienti anziani, non necessariamente vicini alla morte – le cifre parlano di circa 130 000 morti all’anno – è stato presto esteso ai bambini.
La testimonianza di un medico inglese rimasto nell’anonimato descrive che dal momento in cui si inizia la procedura passano mediamente dieci giorni, in cui il bambino diventa progressivamente più piccolo e disidratato (smaller and shrunken) fino alla morte. L’essere testimoni di questa procedura viene descritta come un orrore, sia per i parenti sia per il personale sanitario.
Viene inoltre invocato, dal punto di vista morale, il principio del duplice effetto per procurare la morte a un neonato (The Doctrine of Double Effect). Ovvero viene somministrato un farmaco antidolorifico, in sé non letale, ma a dosi letali. Si tratta in realtà di un’errata applicazione della suddetta dottrina in quanto il fine è quello di procurare la morte, anche se si utilizzano mezzi apparentemente buoni.
Curiosamente Charles Dickens, nel 1858, in una serata di beneficienza con la lettura del Canto di Natale (A Christmas Carol), raccolse fondi e risollevò le finanze del Great Ormond Street Hospital, che versava in una grave crisi finanziaria. Il racconto di Dickens è un forte invito alla rinascita morale della società, accecata dall’egoismo e dall’indifferenza per i più poveri e più deboli. Alla luce dei fatti, forse tornare a meditare il Canto di Natale è l’ultima vera salvezza, non solo per quell’ospedale, ma per l’intera società.
Roberta Spola
La Nuova Bussola Quotidiana, 4 gennaio 2018