Negli anni ’90 nella Bassa Modenese alcuni bambini raccontarono di essere stati costretti a ucciderne altri in riti satanici dai genitori e dal parroco. Non era vero ma non sono mai più tornati a casa.
Bambini sgozzati in pieno giorno e di notte nei cimiteri della Bassa Modenese, legati a croci e accoltellati, abusati e decapitati, infine – da cadaveri – caricati sul Fiorino del parroco don Giorgio Govoni e da lui gettati nel fiume Panaro. E a compiere i riti satanici erano altri bambini, portati lì dai loro stessi genitori, che li violentavano, li inducevano a squartare, a bere il sangue delle vittime, a trovare nuovi bambini da irretire e uccidere. Il tutto per anni, senza che nessuno in paese si accorgesse di niente. E senza che all’appello dei vivi mancasse un solo bambino…
Il paese degli orrori si scopre innocente
Se vi sembra troppo inverosimile per essere credibile, sappiate invece che ci hanno tranquillamente creduto assistenti sociali, psicologi e giudici minorili, cui non servirono prove (infatti inesistenti): i bambini (dopo mesi di allontanamento forzato dalle famiglie) raccontavano questo e ciò bastava. Accadeva venti anni fa nei paesotti sonnacchiosi del modenese, dove le forze dell’ordine presero a suonare alle porte di casa di notte o a presentarsi a scuola al mattino per portare via i bambini. Almeno sedici piccolini da 0 a 11 anni sono stati così sottratti a genitori disperati, che dopo anni di processi da inquisizione verranno infine prosciolti con formula piena, ma ai quali i figli non saranno mai più restituiti. «Qualcuno ora risarcirà i danni, qualcuno risponderà del disastro che, colposamente o dannosamente, ha creato. Presto ci saranno nuovi processi».
Non parla, urla l’avvocato Patrizia Micai, allora difensore di alcune tra le famiglie accusate, e le centinaia di giovani presenti nella grande sala consiliare di Finale Emilia esplodono in un applauso liberatorio: oggi, dopo due decenni di silenzi dettati dal terrore («Chi aveva figli piccoli temeva che il giorno dopo avrebbero suonato alla sua porta e per questo tacevamo», dice la gente), vogliono sapere. Per oltre tre ore, impietosi si succedono fatti e testimonianze, e il silenzio si taglia col coltello, rotto talvolta dal pianto dei protagonisti. Che uno per uno prendono coraggio e per la prima volta parlano pubblicamente. «Sono Roberta Barelli, una delle madri. Venti anni fa mi portarono via i due bambini. Quando mi scoprii incinta della terza figlia scappai a partorire in Lombardia, dove c’erano altri servizi sociali, un’altra Asl, un altro Tribunale dei Minori. Feci appena in tempo perché era già scattato il provvedimento per togliermi anche lei».
Piange, trema e sorride tutto insieme, mentre Giada, 17 anni, la rassicura, «sei una mamma meravigliosa». Alla fine è stata assolta, ma dei due primi figli non ha più saputo nulla. Se è fuggita in Lombardia è perché in paese si sapeva via via di cosa accadeva in altre famiglie.
“Ci presero la bimba in sala parto. Mai più vista”
Si alza Federico Scotta: «A me nel 1997 hanno preso tre figli, l’ultima in sala parto, appena nata. Quello che mi tormenta è che hanno impedito ai nostri bambini di rivedersi tra loro, li hanno separati di colpo e per sempre, perché? Questo mi brucia anche più degli 11 anni di galera da innocente». Perché Scotta è tra quelli che hanno pure già scontato la pena e ora attende la revisione del processo, «per riavere indietro l’onore. I miei figli sanno ancora di avere un padre criminale». Che poi è l’ergastolo di tutti questi genitori, assolti dalla stessa giustizia che li aveva perseguitati, ma non dai loro bambini, diventati adulti nel plagio di quei racconti da oscuro medioevo, ancora oggi convinti di aver partecipato ai sabba infernali e di aver compiuto gli orrendi omicidi di altri bambini.
“Papà fu assolto. Prima di morire supplica di rivedere la figlia”
Piangono tutti in sala quando Antonella Giacco si presenta, «sono la sorella maggiore di Margherita. Ce l’hanno presa una mattina a scuola, a 8 anni, non sapevamo nulla.
Chiedevamo agli assistenti sociali ma non ci spiegavano, passavano i giorni, poi i mesi, poi gli anni. Margherita dopo mesi iniziò a parlare come tutti gli altri bambini di decapitazioni, riti satanici… eravamo sbalorditi, era sempre in casa con noi».
Bambini accusati di decapitare le vittime
Suo padre divenne uno dei principali imputati, il complice di don Ettore, colui che fotografava e filmava mentre Lorena e Delfino, genitori di altri quattro bambini, decapitavano le vittime e ne facevano bere il sangue ai figli. Non importa che naturalmente non esistessero né foto né filmati, le prove nei processi della Bassa Modenese non servivano mai… «Papà ci adorava – dice in lacrime Antonella –, un anno fa un ictus gli ha tolto anche la parola, ma col suo balbettio supplica che gli facciano rivedere sua figlia prima di morire ». Quest’uomo fu tra i primi a risultare innocente, con tante scuse. Come poi Lorena e Delfino Covezzi, svegliati alle 5 del mattino del 12 novembre 1998 da sette agenti intorno al loro letto, che li informavano: «Voi non siete indagati, ma a vostra insaputa don Giorgio porta i vostri bambini a fare sesso e adorare Satana».
Totale mancanza di prove
Fu l’ultima volta che li videro. Quando nel marzo 1999 il vicepresidente della Camera Carlo Giovanardi, con un’interrogazione al ministro della Giustizia Diliberto chiese di sapere perché fossero stati tolti i figli a due genitori non accusati di nulla, improvvisamente anche i coniugi Covezzi divennero indagati, tacciati dagli psicologi di ‘personalità abusante’: pure i loro piccoli, da 3 a 11 anni, dopo mesi di dialoghi con i servizi sociali di Mirandola iniziarono a raccontare gli stessi incubi degli altri bambini. All’epoca esisteva già la Carta di Noto, che indica le modalità con cui psicologi e giudici devono raccogliere i racconti dei bambini, evitando domande suggestive (cioè che stimolano la risposta voluta), ma i consulenti della Asl di Mirandola e del Tribunale dei Minori di Modena aderivano a un’altra scuola di pensiero, basata sul ‘disvelamento progressivo’… Lo denunciò già 20 anni fa l’inviato di Avvenire a Finale Emilia, Giorgio Ferrari, biasimando questa «tecnica rozzamente induttiva (ma molto fascinosa in quanto americana) che partiva da frammenti di sogni o sensazioni per approdare gradualmente a un quadro accusatorio… Questo lo strumento che la Asl di Mirandola mise in campo per ricavare da quei bambini quella che si decise a priori essere la verità…». I periti diagnosticarono sui bambini gravissime lesioni da violenza sessuale, ma quando i medici legali del Gip appurarono che tutti i minori erano invece illibati, l’accusa non fece una piega: ‘La verginità si ricompone’, scrisse, ‘l’abuso non lascia segni’, se non ci sono lesioni non significa che non sia avvenuto.
«Quando dopo 16 anni fummo assolti, Delfino era già morto di crepacuore – racconta Lorena, che 18 anni fa per partorire il quinto figlio, l’unico che le è rimasto, fuggì in Francia –. Oggi la mia preoccupazione sono i miei figli, tuttora convinti da quegli psicologi di aver fatto quelle cose oscene per colpa nostra. Qualcuno dei servizi sociali è mai andato da loro a spiegare che era tutto falso? Chi ha causato tutto questo ha il dovere di dire loro la verità».
Un bimbo: “Io ne ho uccisi cinque”
Agghiaccianti i racconti di Pablo Trincia (volto televisivo delle ‘Iene’), che in casa di Oddina, donna saggia del paese, ha ritrovato i video degli interrogatori dei bambini: ‘Cosa hai provato quando ti abbiamo riportata in quella piazza?’, chiede la psicologa. ‘Gioia’, risponde inaspettatamente la bambina. Non è quello che voleva sentirsi dire, così riprova, ‘sicura? Pensaci bene, magari era un’altra emozione’. Ma la bimba conferma, ‘gioia!’. Così non va bene, ‘non un pochettino anche di sofferenza?’. Dai e dai, la piccola cede e annuisce. Altro video: un bimbo ripete il copione, distrattamente parla di sgozzamenti e sangue bevuto, e tua mamma intanto che faceva? ‘Lei lavava il sangue… Va bene quello che ho detto?’. Un altro racconta sereno, ‘io ne ho uccisi almeno cinque, ma anche di più!’, e gli ‘esperti’ gli credono.
“Veleno” che scorre
Autore di un’imperdibile inchiesta podcast in sette puntate intitolata ‘Veleno’ (scaricabile gratuitamente sul web), in tre anni di lavoro Trincia ha raccolto gli incubi che ancora sconvolgono le menti di quei figli. «Non sapevo nulla di questa storia – racconta in sala – finché nel 2014 mi sono imbattuto negli articoli di Avvenire. Era troppo, quello che leggevo, non era credibile… invece era tutto vero». Nel 2004, in uno dei nostri viaggi a Finale Emilia, avevamo intercettato un interrogatorio importante: ‘L’orco poteva essere il dottore?’, chiedono gli ‘esperti’ al bambino, ‘sì’ risponde sicuro. ‘Ma poteva anche essere il sindaco?’, di nuovo sì, certamente. ‘Ma anche il prete?’, sì… Ci siamo. ‘E può anche chiamarsi don Giorgio?’, ovvio che può. Ecco trovato il capo della setta. Don Govoni verrà condannato a 14 anni, ma il giorno prima muore anche lui di crepacuore, il 19 maggio del 2000. ‘La pena è estinta per morte del reo’, sarà la sentenza. In futuro la Corte d’Appello di Bologna e la Cassazione gli restituiranno innocenza e onore. Che però la comunità e la Chiesa tutta non gli avevano mai negato: la storia di don Giorgio è tutta sulla lapide che i parrocchiani vollero porre in chiesa il 19 maggio 2001, quando cioè per la giustizia era ancora un assassino satanista: ‘Vittima innocente della calunnia e della faziosità umana, ha aiutato assiduamente i bisognosi. Accusato di crimine non commesso, è stato vinto dal dolore’.
Don Govoni martire: “Morto di ingiustizia”
La gente lo aveva assolto in partenza, anche i ‘suoi’ marocchini islamici, o il cattolico Appiah, nero del Ghana, cui aveva dato la casa di sua zia. ‘Il Porto’, l’associazione di solidarietà da lui fondata, gli sopravvive e la parrocchia di San Biagio ha anche comprato un’ex scuola per il suo progetto allora rivoluzionario: dare una casa a immigrati soli, che hanno un lavoro ma dormono per strada. «Nessuno giustizialismo», chiede la psicologa Chiara Brillanti, «ma gli enti che hanno sbagliato ammettano gli errori e riparino ai danni fatti su quei ragazzi». Mentre Giovanardi, anche lui in sala, chiede di salvare il salvabile: «Prima di tutto riavvicinare i fratelli, poi rompere l’omertà istituzionale, e fermare quell’ideologia fallimentare che tuttora contagia alcuni tribunali dei Minori’. La Corte d’Appello nella sentenza di assoluzione parlò a chiare lettere dell’impreparazione degli ‘esperti’, tutti rimasti al loro posto… Il resto parla di cifre a più zeri e conflitti di interessi: «La convenzione da 270mila euro annui dalla Asl di Modena e dai Comuni in favore del Centro Aiuto del Bambino per ‘il trattamento terapeutico’ dei piccoli dal 2002 al 2005 dice molto».
I fatti: la tragica sequenza che rovinò per sempre intere famiglie
Maggio 1997: all’interno di una famiglia disagiata di Finale Emilia si sospetta che siano avvenuti abusi su un bambino. Il padre e il fratello maggiore sono arrestati. Alla psicologa del servizio sociale, Valeria Donati, il picoclo inizia a raccontare alcune accuse, che con il passare del tempo diventano ricche di macabri particolari. Via via, attraverso i colloqui condotti con la tecnica del “disvelamento progressivo”, il piccolo coinvolge sempre più persone.
Il 15 luglio 1997 il pm, sulla base delle sue rivelazioni, chiede il rinvio a giudizio per ben sette adulti. Una delle madri si getta dal quinto piano lasciando un biglietto: «Sono innocente». È solo la prima di una lunga scia di morti, tra disperazione, suicidi e infarti.
Il 12 settembre 1997 don Giorgio Govoni, irreprensibile sacerdote noto per la sua abnegazione nell’aiutare i bisognosi, viene accusato di essere a capo della setta satanica e di far bere ai bambini il sangue delle vittime per trasformarli in “figli del Diavolo”. Non esistono prove contro di lui, come contro altri indagati, ma si crede esclusivamente alle parole dei bambini, sempre più suggestionati.
Dal gennaio all’aprile del 1998 si svolge il primo dei processi, con sei condannati (tra questi i genitori del bambino). Intanto le accuse si allargano a dismisura e, sempre con la tecnica del “disvelamento progressivo” i racconti diventano inverosimili e raccapriccianti, dilaga il numero dei bambini coinvolti e i crimini descritti dai piccoli interrogati parlano ora di omicidi, decapitazioni, riti satanici, orge sessuali, con il coinvolgimento dei loro genitori. Una bambina data in affidamento a una famiglia di Mantova arriva ad accusare persino la sua nuova maestra nella città lombarda, sebbene questa non conoscesse nessuno degli imputati e delle presunte piccole vittime.
Nell’aprile 1999 don Govoni è rinviato a giudizio nel processo Pedofili Bis ma riceve l’attestato di stima dei tutti: il vescovo di Modena Benito Cocchi celebrerà con lui la Messa a Staggia. Al processo si parla di una ghigliottina da lui usata nei cimiteri per decapitare i bambini. Non esiste la ghigliottina, non esistono corpi nel fiume Panaro (dove lui li avrebbe gettati), non mancano nemmeno bambini all’appello… eppure nel 2000 verrà condannato a 14 anni.
Nel frattempo il 12 novembre 1998 vengono portati via i quattro figli ai coniugi Lorena e Delfino Covezzi, prima accusati solo di omessa vigilanza sui bambini, non essendosi accorti che questi partecipavano le notti ai sabba infernali. Ma durante i soliti interrogatori nei mesi anche i quattro loro figli inizieranno a parlare di satanismo.
Negli anni successivi varie sentenze hanno corretto i macroscopici errori della giustizia, ma nessuno dei 16 figli allontanati tornerà mai in famiglia.
Lucia Bellaspiga
Avvenire.it, 7 gennaio 2017