Pensava di essere fuori tempo massimo per riparare al suo errore più grande, di cui si era già pentita. Ma qualcosa, o Qualcuno, le ha fatto capire che c’era ancora speranza e lei è stata in grado di corrispondervi con tutta la sua buona volontà.
Lisa, il nome è di fantasia, è una venticinquenne americana che nell’autunno del 2015 si era recata in un centro abortivo del Michigan per porre fine alla vita che custodiva nel suo grembo, attraverso l’aborto chimico. Vi era poi ritornata una settimana dopo aver assunto il mifepristone, l’anti-progestinico contenuto nella RU-486 (la pillola abortiva che il grande genetista francese Jerome Lejeune ha definito “pesticida umano”) e il cui scopo è inibire lo sviluppo dell’embrione, e quando aveva già ingerito anche la seconda pillola per indurre il travaglio ed espellere il bimbo senza vita. Vi era tornata perché, in mancanza delle attese contrazioni, aveva capito che qualcosa non aveva “funzionato”.
Come un intensissimo raggio di luce tra le tenebre, l’ecografia mostrò che l’aborto non era riuscito. La creatura dentro di lei era ancora viva. Senza nemmeno considerare la grazia ricevuta, il personale del centro abortivo presentò a Lisa due “opzioni”: fare un altro tentativo con la pillola abortiva o praticare l’aborto chirurgico. La donna le rifiutò entrambe. Voleva far nascere quella vita, ma non trovando alcun aiuto in quel centro di morte si rivolse a una vicina clinica pro-life, il Crossroads Care Center di Auburn Hills. Pur chiamando fuori dall’orario d’ufficio, le rispose il direttore della clinica Tim Stickel, che la indirizzò immediatamente verso un trattamento ginecologico d’emergenza.
Da quel momento, mentre la donna riceveva la necessaria assistenza medica, Stickel e altri membri del suo staff hanno trascorso ore in preghiera e con l’aiuto della Bibbia hanno guidato Lisa e il padre del nascituro a prendere consapevolezza del dono che avevano ricevuto con quel concepimento, che li rendeva collaboratori della più alta opera di creazione divina. Nella primavera del 2016, Lisa ha infine partorito una bambina. “È stato Dio a custodirla – ha detto Stickel. Non abbiamo mai pianto di più e pregato così tanto. È stato come un giro emozionante sulle montagne russe, un enorme investimento di tempo, ma solo dopo che Dio aveva preservato questa bambina”.
Non solo quella bambina ha arricchito la vita dei suoi genitori, ma la sua nascita è divenuta una sorgente di speranza anche per altri bambini vittime di un delitto che la cultura dominante celebra come autodeterminazione. Animato dalla volontà di aiutare altre madri in situazioni simili, dopo aver constatato con gioia il cambiamento interiore avvenuto in Lisa e la gravidanza andata a buon fine, nel marzo scorso Stickel ha fatto aderire il suo centro all’Abortion Pill Reversal Network, una rete con oltre 350 cliniche specializzate che finora ha aiutato oltre 400 madri a salvare i loro bambini contrastando gli effetti della RU-486 (la percentuale di successo è del 55%, in base ai dati presentati sul sito del network).
Anche se i cantori dell’aborto come “libera scelta” si guardano bene dal parlarne, dal 2007 esiste infatti una procedura medica per invertire l’azione abortiva indotta dalla RU-486, dando alle madri che hanno cambiato idea la possibilità di salvare la vita del bambino che portano in grembo. Chiaramente prima si interviene e più aumentano le probabilità di evitare l’aborto chimico, che prevede appunto l’assunzione del mifepristone seguita quasi sempre da una seconda pillola a base di prostaglandina. Una procedura che uccide il bambino ed è pericolosa per le stesse madri, come ricordano i due decessi registrati in Italia nel 2014 in seguito all’assunzione della RU, la cui commercializzazione evidenzia tutta l’ipocrisia degli abortisti, che con la legge 194 avevano detto pretestuosamente di voler evitare l’aborto fai da te.
I medici americani che hanno elaborato il protocollo per fermare questo processo di morte e consentire il proseguimento della gravidanza attraverso l’iniezione di dosi di progesterone, capaci di riattivare lo sviluppo embrionale, consigliano di intervenire entro 24 o al più 72 ore dall’assunzione della prima pillola, ma esortano le donne a non perdere le speranze anche se sono passati tre giorni: potrebbe non essere troppo tardi, come ci ricorda la storia di rinascita di Lisa e della sua bambina.
Ermes Dovico
La Nuova Bussola Quotidiana, 14 gennaio 2018