Accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Sono i quattro verbi che papa Francesco ha suggerito per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018.
Quattro movimenti, che possono prendere vie molto diverse, e che proprio in questa creativa ricchezza possono aiutare a stabilizzare delle “forme” che ci aiutino a vivere umanamente in un mondo che è plurale, che ci piaccia o no. Perché, come scriveva Hannah Arendt, «gli uomini, non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo». La pluralità non è la variazione dell’identico, come nei prodotti fatti in serie che si distinguono per qualche optional, o nel conformismo sociale di chi cerca l’originalità in qualche dettaglio.
Pluralità è la convivialità delle differenze, radicata nella comune appartenenza alla famiglia umana, e nella comune eppure singolarissima capacità di azione libera: dare inizio a qualcosa che prima non c’era, mettere al mondo, moltiplicare l’energia della vita. Siamo fratelli non perché siamo uguali (tutti i fratelli sono tutti diversi in realtà, anche i gemelli), ma perché abbiamo lo stesso Padre, e perché attraverso di noi può continuare a germogliare la vita. Siamo fratelli nella capacità di generare l’inaudito, di far crescere la speranza, di far entrare luce nel mondo, di “amorizzarlo”, come invitavano a fare Pierre Teilhard De Chardin e, poi, Arturo Paoli.
Non c’è alternativa tra la vita e la morte, tra la generatività e la stagnazione. Ciò che non respira, che non si allarga, che non lascia entrare aria da fuori si spegne per asfissia. Se pensiamo di salvarci chiudendo porte e finestre, alzando muri («se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori», scriveva Italo Calvino) costruiamo da soli la nostra prigione e in fondo siamo come chi sega il ramo su cui è seduto. Perché la frase «chi vuol salvare la propria vita la perderà, e chi è disposto a perderla la salva» non è solo un simpatico paradosso dei tanti che costellano il Vangelo.
È l’essenza stessa della vita piena. Il voler trattenere, la paura di perdere qualcosa, il concentrarsi su di sé e i propri costi/benefici, il rimpicciolire i nostri orizzonti sui vantaggi immediati e il chiudere i nostri spazi (che poi non sono nostri: soprattutto se ci diciamo credenti, la terra è un dono per tutta l’umanità da coltivare e custodire, non un possesso da difendere gli uni contro gli altri) ci svuota, ci sdilinquisce, ci disumanizza, ci uccide. Non esiste via di mezzo tra il lasciar andare e il trattenere e solo il primo è movimento di vita. Ma occorre allenarci, aiutandoci a vicenda, perché pur essendo vitale non è un movimento che venga spontaneo.
Come scriveva Rainer Maria Rilke, «Dobbiamo, in amore, praticare solo questo: lasciarci andare l’un l’altro. Perché è trattenere che viene spontaneo». I quattro verbi che il Papa ci suggerisce sono uno stimolo a esser generativi, prima ancora che a risolvere una questione sociale. Non è di politica che si sta parlando, ma di umanità e di vita; di senso di ciò che facciamo. Perché senza la domanda sul senso ci affidiamo inevitabilmente alle soluzioni tecnocratiche, diventandone ostaggio anziché timonieri.
Allora quattro movimenti, quattro direzioni, quattro processi per essere prima di tutto vivi noi, capaci di rispondere alle sfide con iniziativa e audacia. Quattro movimenti che declinano il ‘prendersi cura’, che è crescita nella reciprocità e non erogazione di prestazioni. Che rigenera, e non sottrae solo energie e risorse. Che mette a sua volta in moto processi nuovi: e il fatto che temiamo di non poterli controllare non li rende per questo cattivi, anzi. Possiamo forse controllare la vita dei figli che abbiamo messo al mondo? Sarebbe perverso il solo pensarlo. Sarà la via imprevedibile che prenderanno ad arricchire di novità le nostre vite, a estenderle dove mai saremmo arrivati da soli, coi nostri programmi. Ma forse questa metafora semplice è difficile da capire in una società dove non si fanno nascere più figli per paura di ciò che si perde. O dove non si aiutano le persone a essere in condizione di diventare genitori, perché le priorità sono sempre altre… Nessuna meraviglia che una società che non sa accogliere i bambini non sappia accogliere i migranti, perché ‘tutto è connesso’.
Accogliere non è albergare. Non è trovare un posto da qualche parte, che crei il meno disturbo possibile e magari possa diventare un business. Accogliere è fare spazio nelle nostre vite, metterci in gioco, cambiare le nostre abitudini, lasciarci rinnovare. Entrare in relazione, perché ‘ospite’ è parola di reciprocità. È entrare in una avventura di vita, invece che cercare tristi vie di fuga alle nostre stanche routine con le pseudo-avventure online. Proteggere non è solo dare un tetto, ma custodire, sentirsi responsabili. Non fare come Caino, non pensare che la questione non ci riguardi. Pensare in relazione anziché pensare individualmente: un movimento che può solo farci bene. Promuovere, perché assistere non basta. Tante delle persone che arrivano hanno competenze, esperienze, speranze, energie che, valorizzate, possono far bene a tutti, far crescere una società che sta girando sempre più a vuoto. Promuovere loro è promuovere noi.
E infine integrare, che non è né assimilare (ti tengo, se diventi come me) né tollerare (fai quel che ti pare, basta che non disturbi), modi entrambi indifferenti alla differenza e fallimentari, come la storia dimostra. Integrare è rendere parte attiva, corresponsabile. Che significa anche, appunto, ‘lasciar andare’, ‘autorizzare’ a scrivere con noi il futuro: non pretendere di dire a chi arriva dove deve andare (non lo sappiamo nemmeno per noi!), ma accettare di entrare insieme in un movimento vitale di cui non possiamo conoscere l’esito a priori ma che, se ci coinvolgiamo con responsabilità e onestà, porterà certo buoni frutti. Per una volta facciamo prevalere la speranza sulla paura, che è ciò che ci rende manipolabili e sterili. Ascoltiamo nel nostro cuore questo invito di papa Francesco, lasciamo che la mente trovi le forme, cominciamo a costruirle insieme e ciò che germoglierà sarà vita nuova.
Chiara Giaccardi
Avvenire.it, 14 gennaio 2018