Perché nel mondo esiste la sofferenza? Come mai Dio che si dichiara buono, la permette? Nicolas.
L’interrogativo posto da Nicolas richiama un bisogno fondamentale dell’uomo che da sempre ricerca le ragioni del soffrire e il perché del morire, se desidera vivere pienamente e da protagonista il cammino dell’ esistenza. Il cardinale J.M. Villot confidò nel tempo della malattia che lo condusse alla morte: «Noi preti sappiamo pronunciare belle frasi sulla malattia, io stesso ne ho parlato con calore, io voglio dire da malato ai preti di non dire più niente perché noi sovente ignoriamo quello che la malattia è. Al pensare quante volte ne ho parlato e ne ho parlato da insipiente ne piango ancora». Ho citato questa testimonianza che presenta l’osticità dell’argomento mentre mi assumo il rischio di commentarlo, ben conscio che sulla sofferenza potrò unicamente balbettare qualche concetto interiorizzato ascoltando le grida dei molti malati che incontro da cappellano ospedaliero.
La sofferenza sembra smentire l’opera della creazione, infatti nel progetto primordiale di Dio non erano previste il dolore e la malattia, la sofferenza e lo sconvolgimento dello spirito, ma tutta la creazione si sarebbe evoluta secondo «un progetto magnifico nella libertà e nell’equilibrio dei valori e delle forze, in modo che l’umanità sarebbe vissuta felice nell’attesa di essere trasferita nella visione beatifica» (A. Bertrags, Il dolore nella Bibbia, Laterza 1967, 23). Ma, il peccato originale (cfr Gn. 3), oscurò il rapporto dell’uomo con Dio e deteriorò la relazione con la donna e con il cosmo. Così il biblista G. Helena commenta questa dura realtà: «L’uomo soffre perchè, allontanandosi da Dio, si è procurato questa disgrazia: è espulso dal giardino (cfr Gn. 3,23), ossia non è più nella condizione di avvalersi di un rapporto integro con il suo Creatore (…). Cedere alla lusinga del tentatore (cfr Gn. 3,1-7) è più che un errore mentale: è una ribellione a Dio, la “hybris” di una creatura che si rifiuta di gestire come tali i propri giorni (…). Genesi dunque dei mali che proliferano nella storia e pesano sull’essere umano è la tremenda realtà del peccato» (AA. VV., Dizionario di Teologia di Pastorale Sanitaria, Camilliane 1997, 1164). In quella circostanza iniziò il combattimento per sopravvivere, e ancora oggi, dopo secoli, il dolore e la sofferenza fisica e morale sono terribilmente presenti nel mondo. Ma Dio non abbondò l’uomo, nuovamente lo amò donandogli il suo Figlio, così descritto dai teologi M. Flink e Z. Alszeghy: «Cristo è il liberatore, Cristo è il guaritore, Colui che viene a liberare la creazione dalla servitù del peccato che l’ha coinvolta e viene a ricostruire il “disegno prioritario” della creazione; Cristo è colui che assumendo la natura umana dà significato al dolore» (Il mistero del dolore, Morcelliana 1978, 155). Unicamente accogliendo la sofferenza e la morte, situazione comune alla creatura umana, Cristo divenne realmente uno di noi, mentre con la Sua divinità spezzò la tragica frontiera del dolore, fecondandolo ed aprendolo all’alba della Risurrezione. Da quella morte straordinaria, sorse la nuova umanità dei Figli di Dio (cfr Rm. 6,6) e la nuova Gerusalemme dove si affaccia un nuovo cielo (cfr Ap. 21,1-2) e nacque, come da un parto sofferto, la nuova creazione (cfr Rm. 8,19-22). Il sacrificio di Cristo, fu interpretato nella storia della teologia, in vari modi. Un punto di riferimento che indica la grandiosità di Cristo, della sua venuta e della sua opera, lo troviamo nella lettera di san Paolo ai Romani: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono gratuitamente giustificati per la Sua grazia in virtù della Redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede nel Suo sangue» (Rm. 1,22-25).
Questa interpretazione, pur esponendo che Dio non è l’origine e la fonte della sofferenza umana, lascia aperti alcuni interrogativi riassunti da C. Bernard: «non mi lamento di soffrire, ma di soffrire per nulla» (L. Jerphagnon, Le mal et l’esistence, Cerf 1955, 139). Un’altra componente che rende oscura la tematica è il trovarci a contatto con «croci prive di crocifissi», cioè a sofferenze fisiche, psicologiche e sociali giudicate prive di significato, procurate accidentalmente dalle circostanze della vita, dalla cattiva gestione di casi personali e da determinate leggi. Ci scontriamo, inoltre, con la sofferenza dell’innocente, quella descritta nell’interrogativo rivolto a Dio da Ivan, un personaggio di F. Dostoewskij: «Se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l’armonia eterna, che c’entrano i bambini? Rispondimi, per favore. E’ del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocchi pure a loro comprare l’armonia con la sofferenza»(I fratelli Karamazov, Garzanti 1992, 338).
Dal Vangelo deduciamo che le radici della disperazione di molti sono identificabili, prevalentemente, nell’errata immagine Dio che si sono costruiti alquanto difforme da quella esposta dalla Rivelazione e nello scorretto rapporto stabilito tra dolore e punizione divina, sofferenza e colpa. Per questo, molti malati, si interrogano: «Perché Dio mi castiga così». Se il nostro creatore fosse il regista della sofferenza, negherebbe la sua identità di Padre buono e misericordioso e, quindi, non sarebbe meritevole della nostra adorazione e della nostra fiducia. Nella visione cristiana, Dio è l’onnipotente nell’amore e nell’umiltà, non è colui che accondiscende a tutte le nostre richieste. Sostiene il sofferente e ci esorta a condividere il dolore umano.
Dobbiamo superare, inoltre, il pensiero diffuso che identifica la Chiesa come colei che insegna la positività del dolore e della morte. Idea purtroppo supportata anche da una teologia del passato o da affermazioni discutibili e disturbanti. Il cristianesimo non decanta per se stessi né la sofferenza, né il dolore, né la morte, come beni. Non esiste il dolore positivo; possiamo fornirgli dei significati, ma la malattia permane una negatività; per questo Gesù la combattuta.
In duemila anni molti hanno meditato sulla sofferenza. Un importante punto di riferimento è la Lettera Apostolica «Salvici doloris» di san Giovanni Paolo II sul «senso cristiano della sofferenza» (11 febbraio 1984). Fu il primo Pontefice ad impostare un’ organica riflessione sul dolore umano partendo dal libro di Giobbe che insegna come un individuo può soffrire molto, senza reputarsi colpevole e punito da Dio. Anzi, l’autore del testo, mostra la metamorfosi del soggetto; da sofferente alla ricerca di Dio, Giobbe si tramutò in un assiduo credente avendo ritrovato il suo Dio.
San Giovanni Paolo II non fornisce delle risposte ai «perché», ma evidenzia dei «significati».
– La sofferenza e la malattia, possono mutarsi, indirettamente, in un tempo favorevole all’uomo, assumendo un valore educativo: «La sofferenza deve servire alla conversione, cioè alla ricostruzione del bene nel soggetto, che può riconoscere la misericordia divina in questa chiamata alla penitenza» (12). Questa fu la pedagogia che Dio adottò con Abramo, con Giobbe, con Geremia, con Paolo di Tarso, con Francesco d’Assisi, con Giovanni di Dio, con Camillo de Lellis e con molti altri, riassunta da A. Manzoni: «Dio non toglie mai una gioia ai suoi figli se non per darne un’altra maggiore e più consistente» (Promessi Sposi, Cap. IV).
– La rilevanza che il sofferente assume per la società e per la Chiesa (argomento che tratterrò inseguito).
– L’aspetto spirituale e religioso va valorizzato come aiuto e supporto nella ricerca di valevoli significati ad un determinato periodo dell’esistenza.
Questi argomenti vanno esposti con grande rispetto e con sensibile tatto; è un faticoso cammino da accompagnare con benevola discrezione per evitare nel sofferente la chiusura in sé stesso e la ribellione nei confronti di Dio e della vita. L’uomo fatica a rintracciare riscontri soddisfacenti; il più importante e decisivo è mostrare che in ogni sofferenza è presente una speranza e il valore della redenzione e della salvezza che Dio continuamente semina in ogni uomo.
don Gian Maria Comolli