Almeno le attrici di Hollywood erano donne adulte, manipolabili da un potente produttore come Harvey Weinstein, ma pur sempre in possesso della maturità che deriva dalla maggiore età. Le oltre 160 vittime che Larry Nassar, il medico della Federazione ginnastica Usa, ha stuprato o molestato nel corso di quasi 30 anni, erano bambine. Subire abusi sessuali era il prezzo che dovevano pagare per arrivare alle Olimpiadi – non c’era altra opzione.
Subire o essere tagliate fuori dal programma competitivo, abbandonare il loro talento, rinunciare al loro genio. Sono gli elementi più agghiaccianti che emergono dal processo al medico delle campionesse, che ha mostrato ancora una volta che cosa può succedere quando un’istituzione crea strutture di potere inappellabile e un’atmosfera di assoluta obbedienza.
Per le ginnaste, infatti, il trattamento medico era obbligatorio. Gli esami ginecologici da parte di Nassar, che non è un ginecologo, erano obbligatori, anche a sei anni. Le regole della Federazione precisavano che chi protestava poteva essere rimossa dalla squadra. La risposta più ovvia a tanta pressione? Il silenzio. Fino a quando Rachael Denhollander non ha parlato.
L’ex ginnasta, ora 33enne avvocato, madre e allenatrice, ha dato il via al fiume delle accuse rivelando, da sola, al quotidiano ‘Indianapolis Star’ che Lawrence Nassar l’aveva molestata sessualmente da bambina. Mercoledì scorso, Denhollander ha ripetuto le sue accuse in un’aula di tribunale, prima che Nassar fosse condannato a un minimo di 40 anni di prigione. E questa volta non era sola. Allo stesso microfono si erano alternate 155 giovani per raccontare la loro storia, spesso fra le lacrime, spesso descrivendo non solo gli atti osceni del medico, ma anche gli anni di depressione, i tentativi di suicidio e la fatica di ricostruirsi una vita. Il giudice ha lodato Denhollander, perché «il suo coraggio ha aperto la strada alla giustizia».
Ma in realtà la giovane non è stata la prima a parlare, solo la prima a essere creduta. Kyle Stephens, ad esempio, aveva provato a denunciare il suo aggressore vent’anni fa, all’età di 12 anni. Nessuno l’aveva ascoltata. Nemmeno la madre o il padre che, nel 2016, si è tolto la vita, secondo la figlia schiacciato dal senso di colpa. Tante altre sono state ignorate. L’Università del Michigan, dove Nasser lavorava, ricevette il primo rapporto sul comportamento del medico nel 1997 e lo archiviò. Molto è cambiato nella sensibilità americana nei confronti dell’abuso sessuale negli ultimi vent’anni.
Ma la spinta finale a prendere sul serio i sospetti di molestie è probabilmente scaturita dal caso Weinstein, il produttore di Hollywood, e dal movimento #MeToo che ne è nato. Le giovani donne sono ancora spesso considerate testimoni non credibili quando denunciano abusi sessuali. Secondo i sociologi, perché riconoscere che un uomo ‘normale’ e stimato sia uno stupratore o un molestatore significa ammettere che la società ha tollerato tale comportamento, ha finto di non vederlo.
Ma tale riconoscimento è sempre più possibile, sicuramente anche grazie alla valanga di denunce che ha fatto seguito al caso Weinstein, negli Stati Uniti e altrove. Il movimento è cresciuto a dismisura, tanto da generare la paura che si sia spinto troppo in là, condannando quasi alla stessa stregua le avances indesiderate e la violenza. Ma non si può dimenticare che, all’origine della rivoluzione, se così la può chiamare, non c’è il desiderio di punire indiscriminatamente gli uomini, ma di ascoltare le vittime.
Anche lo slogan corollario di #MeToo, ‘credere alle donne’, è stato criticato negli ultimi mesi, interpretato come l’obbligo di prendere per vero tutto ciò che una donna denuncia, senza domande. In realtà in questo caso ‘credere’ significa investigare e aprirsi alla possibilità che una persona stimata e in posizione di autorità abbia commesso abusi. Significa che ora il pubblico è disposto ad ascoltare donne come Kyle Stephens, che hanno parlato di quello che è successo loro per anni.
Non tutte le vittime hanno accesso a questa nuova realtà. Quelle senza nomi famosi, che svolgono lavori umili in alberghi o ristoranti, non hanno ancora avuto lo stesso riconoscimento che è arrivato a Hollywood o ai vertici dello sport. Ma stanno iniziando a farsi sentire. #MeToo non ha portato Larry Nassar alla giustizia. Il coraggio delle sue vittime l’ha fatto. Ma grazie a #MeToo, le ragazze che hanno affrontato Nassar hanno parlato in un momento in cui l’America era pronta per ascoltarle.
Elena Molinari
Avvenire.it, 27 gennaio 2018