Diversi ricercatori criticano l’attuale ossessione per il pensiero computazionale e sostengono invece lo studio della filosofia e della poesia per salvarci dal rischio dell’omologazione.
«In quale situazione di grande svantaggio potremmo finire, noi e il mondo, se costringessimo le nostre menti ad affrontare tutti i problemi allo stesso modo», si chiede Josh M. Olejarz sulla “Harvard Business Review” dello scorso agosto in un articolo titolato esplicitamente “ Liberal Arts in Data Age”. E sì! Un mondo ad altezza di algoritmi, pensiero computazionale e big data non potrebbe essere che un mondo a senso unico. Se ne avvede anche la prestigiosa rivista di management di una delle università faro del liberismo. A sottrarci a questa deriva sarebbero, secondo Oleajarz, filosofia, letteratura e poesia. Oggi in effetti non c’è azione o comportamento che non sia guidato da un algoritmo o tradotto in una serie di istruzioni meccanicisticamente risolvibili. In una realtà dove tutto è codificato, declinato in protocolli e interpretabile da algoritmi cosa resterebbe dell’uomo? Nel 1956 Günther Anders definì l’essere umano al tempo delle tecno- logie diffuse come antiquato. Con questa espressione intendeva dire obsoleto, incapace di rimanere al passo con la “performatività” pretesa dal funzionamento delle tecnologie. Con azioni e comportamenti umani istantaneamente processati, anticipati o condizionati da algoritmi, vale a dire da una sequela di istruzioni preconfezionate, che spazio rimane all’imprevisto e dunque alla libertà degli uomini? Olejarz non esita a mettere sotto accusa l’attuale ossessione per il coding, il pensiero computazionale, e per le cosiddette Stem (acronimo di Science, Technology, Engineering and Mathematics). Se trionfassero tutto il mondo adotterebbe le stesse strategie di pensiero e ragionerebbe alla stessa maniera. E non sarebbe certo uno spettacolo edificante vedere miliardi di uomini trovare le stesse soluzioni a problemi uguali.
Gli dà ragione Scott Hartley con il suo The Fuzzy and the Techie (Houghton Mifflin Harcourt, pagine 304, euro 16,99) il cui sottotitolo è sufficientemente esplicito: perché le discipline umanistiche governeranno il mondo digitale. Dall’esigenza di superare la dicotomia tra i nerd delle tecnologie e i secchioni umanisti (questione trita e ritrita dai tempi di Snow) il venture capitalist ricava però un problema delicato. Il mondo di oggi è così complesso, interdipendente e volto a repentini cambiamenti che agli studenti non deve essere offerto un percorso formativo incentrato solo su discipline scientifiche. Al centro del curricolo di studi dovrebbero trovare posto filosofia e poesia, arte e letteratura. Alle discipline umanistiche spetterebbe il compito di rendere elastiche e flessibili le menti dei giovani, capaci così di prospettare soluzioni innovative e scenari controfattuali. Non si potrebbe spiegare altrimenti il successo del filosofo Stewart Butterfield a capo di Slack e cofondatore di Flickr. O di Jack Ma, al timone di Alibaba con un cursus studiorum di anglistica, e Susan Wojcicki, Ceo di YouTube dopo studi di storia e letteratura. O ancora di Brian Chesky, esperto di belle arti, che capitana Airbnb. «Naturalmente – precisa Hartley – non che non si abbia bisogno di esperti tecnici ma occorrono anche persone che comprendano i perché e i come del comportamento umano».
Eppure Hartley, probabilmente per formazione, motiva la difesa della filosofia e della letteratura mostrandone il peso nel successo economico. Diversa invece è la posizione di Gary Saul Morson e Morton Schapiro nel loro Cents and Sensibility( Princeton University Press, pagine 320, euro 22,50). Il docente di letteratura russa e l’economista della Northwestern University riabilitano la letteratura. Essa non sarebbe una disciplina residuale ma uno strumento per rendere aderenti alla realtà predizioni e analisi degli economisti. Anche perché l’homo oeconomicus, richiamato dalle scienze economiche, nella realtà non esiste. Letteratura e economia, «due culture, un fine comune: costruire un mondo – scrivono – che non attinga esclusivamente all’economia, alla medicina, all’ingegneria e alla scienza per rendere le vite solo più lunghe e prospere. Ma in cui le discipline umanistiche e le arti possano rendere quelle vite migliori. Integrare il rigore quantitativo, l’attenzione all’organizzazione e la logica economica con l’empatia, la prudenza e la saggezza proprie delle discipline umanistiche », è la via per sottrarsi ai diktat degli algoritmi. Se invece dovessero prevalere rischierebbe di sfuggirci il senso del nostro operare.
E proprio Sensemaking si intitola il libro di Christian Madsbjerg (Hachette Books, pagine 240, euro 17,56) che difende «l’indispensabilità delle discipline umanistiche nell’epoca degli algoritmi». Secondo Madsbjerg la fissazione per i dati spesso maschera incredibili carenze con rischi per l’umanità. La devozione cieca ai numeri mette in pericolo le imprese, il mondo della scuola, i governi e le vite dei singoli. Solo la capacità di dare senso alle nostre azioni, il sensemaking appunto, proveniente da filosofia e poesia «insegna – ammonisce l’autore – a individuare cosa meriti la nostra attenzione e a stabilire cosa realmente conti».
Simone Paliaga
Avvenire.it, 23 gennaio 2018