Aveva 29 anni, da anni soffriva di una patologia mentale profonda, per cui aveva cercato di dare fuoco a casa sua, finendo in carcere per oltre due anni, spesso in isolamento e senza ricevere cure. Motivo per cui era peggiorata. Aurelia Brouwers (nella foto) aveva anche perso la madre (del padre non si parla) con cui non aveva avuto un rapporto lineare e quando ha chiesto di essere uccisa dallo Stato non solo il mondo mediatico, non solo quello legale e medico, ma quello dei suoi fan e “follower” l’ha spronata a combattere per il suo “diritto” ad essere uccisa. Non importa se non era in fin di vita e se fisicamente era sana.
Così è accaduto che in Olanda, il 26 gennaio scorso, questa giovane, arrivata persino all’autolesionismo e a “sentire le voci”, grazie alla legge sull’eutanasia vigente è riuscita ad ottenere ciò che la sua volontà impazzita pretendeva. Per vincere la sua battaglia di morte, Aurelia ha condotto una campagna incessante di auto supporto sui social media ottenendo approvazione, nonostante i suoi post deliranti, anche da tanti “vip” che si sono fatti persino fotografare con lei.
Dunque siamo arrivati all’assurdo per cui il sostegno ad una persona si misura non tanto in base alla capacità che si ha di sacrificarsi per essa e di accoglierla così com’è spingendola a volersi bene, ma da quella di assecondarla comodamente, senza troppa fatica, a persistere nell’autodistruzione. Esattamente come esige l’egoismo individualista, dove si è “amici” finché l’esistenza dell’altro non turba troppo la propria ma il cui esito è la solitudine.
C’è ben poco da scandalizzarsi, però, se dall’eutanasia per i malati terminali, dalle Dat in cui si concede di privare chi lo voglia dell’alimentazione e dell’idratazione, siamo arrivati qui. Anzi. Chi vuole l’eutanasia, chi parla di “staccare i macchinari” lo fa perché è terrorizzato dalla sofferenza e perché pensa che non ci sia nulla in grado di renderla sopportabile. E se questa è la logica dei vari “testamenti biologici”, delle norme sul suicidio assistito o sulla “dolce morte”, perché non dovrebbe applicarsi anche alla sofferenza mentale che può distruggere e spaventare anche più di quella fisica?
È da qui che si comprende che il problema di queste norme fondate sull'”autodeterminazione” non possono essere i limiti e i “paletti” entro cui le si scrive. Perché è la logica ad esse sottesa il vero problema, quella per cui per cancellare le sofferenze bisogna eliminare chi la vive. Infatti, più la società risponderà al problema del dolore con queste leggi, più genererà dolore, sofferenza, solitudine e quindi disperazione sucida. Perché più si prova ad estirpare totalmente il malessere, invece che condividerlo, più questo si amplifica.
Quale sia la sola risposta di speranza alla sofferenza lo testimoniano invece tanti malati come J.J. Hanson, morto alla fine dello scorso anno, dopo tre anni di lotta contro il cancro. “Sono fortunato ad avere avuto una famiglia che mi sostiene e ad aver avuto accesso ad una terapia sperimentale. Per cui sono qui tre anni dopo con un altro figlio a vivere la vita al massimo”, spiegò l’uomo che differenza di Aurelia, oltre ad avere qualcuno a combattere al suo fianco, è stato curato fino all’ultimo.
Come il sacrificio (l’amore vero) sia la sola arma capace di alleviare la sofferenza, generando vita e speranza anche nelle situazioni più dure, lo dice anche la vita di Paolo Palumbo, 20enne malato di Sla, il cui fratello Rosario ha deciso di lasciare gli studi per mettersi a lavorare al suo fianco come cuoco: “Ho entrambe le braccia paralizzate, non potrei cucinare senza il supporto di mio fratello: in pratica io do la ricetta e lui esegue in base alle mie indicazioni”. Oltre al fratello e alla famiglia, Paolo parla dei suoi medici del Centro Nemo di Milano come degli angeli al suo fianco nel combattimento per la vita e contro la malattia.
Ma che non sia l’eliminazione ma l’accettazione della sofferenza condivisa l’unica strada per renderla sopportabile e per ridurre la disperazione sociale lo ricorda infine la vicenda di dj Fanny, che compone canzoni con gli occhi. Lui che, a differenza di dj Fabo, è amato anche così sia dalla famiglia sia dalla fidanzata, spiega che pur in un letto, “sono riuscito a trovare la felicità nelle piccole cose: svegliarmi ogni giorno e sentirmi circondato dall’affetto dei miei famigliari e dei miei amici. Passare il week-end in compagnia della mia ragazza…Piccole cose che alla maggior parte di voi potranno sembrare banali, ma che riempiono le mie giornate e il mio cuore!”.
È in questo modo che, curando lui, i suoi parenti, la fidanzata e i medici alleviano anche la sofferenza di altri. Perché, continua dj Fanny, ”le persone in difficoltà che mi scrivono ogni giorno sono tante. Ci sono i miei “colleghi di tracheotomia”, quelli che hanno affrontato o stanno affrontando gravi patologie. Ci sono persone con problemi di depressione che mi dicono che la mia storia costituisce per loro una grande motivazione e un grande stimolo ad andare avanti”.
Benedetta Frigerio
La Nuova Bussola Quotidiana, 6 febbraio 2018