La testimonianza di Aurora: «Ero sola contro gli adulti, in difesa del mio bambino».
«Far nascere questo figlio sarebbe la tua rovina, la tua vita finirebbe qua». Stefano era alto 7 centimetri e già era un pericolo pubblico, insomma, da annientare prima che combinasse danni irreversibili. Ma sveglio com’era (era l’agosto del 2011 quando lo scoprirono rannicchiato nel piccolo utero di sua madre) sfoderò il primo dei suoi assi nella manica: «Per settimane non ci accorgemmo che ero incinta, perché al primo mese ebbi ugualmente il ciclo», spiega Aurora Leoni, «così io e nonna Valentina lo scoprimmo con un mese di ritardo. Vivevo con lei da sempre, perché mia mamma se n’era andata quando avevo un anno e mio padre non l’ho mai conosciuto, per questo ero sotto i servizi sociali di Forlì e ovviamente ci rivolgemmo a loro: avevo 12 anni, ero una bambina e aspettavo un figlio. Tutto il mondo degli adulti si mosse per ‘aiutarmi’, ma aiutarmi ad abortire, invece quel fagiolino era già mio e io non avevo mai provato la felicità che sentivo da quando lo avevo dentro».
Matura come una madre e acerba come l’adolescente che è, Aurora (oggi 19 anni) oscilla tra le sue due anime e prova ad armonizzarle, certa soltanto di una cosa: «Allora ero ribelle e trasgressiva, un colpo di testa dopo l’altro… ma il mio bambino è stato il colpo in testa mandato dal Cielo per salvarmi. Senza di lui oggi sarei sicuramente alla rovina». L’esatto opposto di quanto le diceva l’assistente sociale, cioè, che provava a farla ragionare: «Se lo tieni cosa dirà la gente? Anche i giornali ne parleranno».
Come da copione, pure il padre del bambino trovava saggio eliminare il problema alla radice, anche se in questo caso – bisogna ammetterlo – con l’attenuante dell’età (solo due anni più di Aurora). Motivo per cui quando la bambina raggiante di gioia gli rivela la notizia, la sua sola preoccupazione è «non dirlo a mia mamma», pretesa impossibile. Persino nonna Valentina, pur contraria all’aborto e affezionata alla nipote, sa che non c’è alternativa e attorno ad Aurora il cerchio si stringe. A 12 anni si è in grado di generare la vita ma non si ha voce in capitolo, la legge per lei non prevede il diritto di scelta, così in quattro e quattr’otto i servizi sociali prenotano le visite al consultorio pubblico e la data per l’aborto viene fissata. Ma Stefano ha quell’asso nella manica e ribalta la situazione: «Il ginecologo ha scoperto che era già di tre mesi e mezzo, i termini di legge per abortire erano già scaduti. Lui era seccato, io felicissima. Se non che la legge 194 prevede che per gravissimi problemi a livello psichico si può interrompere la gravidanza anche dopo, così mi portarono di corsa da un neuropsichiatra infantile, che ci desse lui la soluzione». Ma niente da fare neanche lì: rimasta da sola a colloquio con lui, Aurora sfodera la prima delle sue due anime, quella della madre già matura, ripete che quel figlio è suo e lei lo vuole… E Stefano si avvia indenne verso gli 8 centimetri di lunghezza.
I servizi sociali a questo punto chiedono almeno ad Aurora di entrare in comunità, e lei per la gravidanza approda al Cav di Forlì, il Centro di Aiuto alla Vita, dove tuttora vive. «È difficile perché non è come a casa tua, ci sono delle regole, orari da rispettare, vivi in mezzo a tanti bambini», racconta oggi, ma anche dove «ho trovato la mia famiglia e la mia seconda mamma, quella che mi è sempre stata vicina e tuttora lo è», Angela Fabbri, attivissima presidente del Cav e da 30 anni responsabile della Casa d’accoglienza ‘La Tenda’.
È lì che i due bambini, mamma e figlio, crescono uniti, immersi in quel condensato di vita vera che è la casa famiglia, dove altri sette bambini non sono fortunati come Stefano: «Io so bene cosa vuol dire da piccoli non avere la mamma, per questo in casa do una mano a operatori e volontari, anche se di giorno faccio il servizio civile in una scuola elementare a sostegno degli scolari problematici – racconta Aurora –. Di notte invece studio per l’ultimo anno di odontotecnico». Con la stessa forza con cui ha lottato perché Stefano nascesse, ha subito chiarito che non lo avrebbe affidato a nessuno, «non volevo fare con lui lo stesso errore che mia madre aveva fatto con me. Io sono figlia di una donna che ha dato alla luce otto figli da quattro padri diversi, Stefano invece dovrà sempre sapere che lui è la mia priorità, tutto il mondo viene dopo di lui».
Per questo non le importa che il padre non lo abbia riconosciuto e che dopo il primo anno e mezzo abbia anche smesso di venirlo a trovare, «gli alimenti? non li ho mai chiesti e non so che farmene, io ho Stefano e quindi ho tutto », spalanca gli occhi azzurri sotto il caschetto rosso. Il suo bambino, stessi occhi ma capelli d’oro, in sei anni ha già cambiato tre cognomi, il primo scelto dall’ostetrica al parto, il secondo dall’anagrafe, «finalmente a 16 anni la legge mi ha consentito di dargli il mio. E a 18 ho subito iniziato a testimoniare: le donne devono sapere la verità, non è umano ingannarle, si deve dire che abortire significa uccidere tuo figlio. La legge parla chiaro, gli assistenti sociali dovrebbero aiutare la maternità quando è difficile, non farti credere che l’aborto sia una cosa normale. Il giorno in cui ho fatto la prima ecografia l’ho visto, era piccolissimo ma così bello, era il mio dolce maschietto già amato e desiderato. Se avessi dato retta agli adulti, ok, oggi andrei in discoteca e sarei libera, ma la mia vita sarebbe disperata: allora frequentavo una compagnia poco bella e vedo come sono finiti male gli altri, come sono angosciate le mie amiche che hanno abortito. Quella piccola cosina dentro di me mi ha salvata». L’assistente sociale di una volta è stata la prima a portare un regalo a Stefano quando è nato. E oggi uno dei medici del consultorio ogni volta che mi incontra con lui mi dice: «Guarda cosa stavi per perderti».
Lucia Bellaspiga
Avvenire.it, 2 febbraio 2018