Avvertenza per il lettore: questo articolo è rivolto a coloro che sono interessati a ricevere un sussidio che li aiuti a giudicare le azioni che portano a morte le persone per interruzione di sostegni vitali. Tenterò di rendere il più semplice e chiaro possibile ciò che invece è molto complesso, il tutto nello spazio di un articolo di giornale, anziché come faccio normalmente, in un ciclo di lezioni universitarie.
Partiamo dal caso di Patrizia Cocco, la signora di 49 anni malata di SLA deceduta per sua espressa volontà dopo interruzione della ventilazione assistita da parte dei sanitari grazie, così si dice, alla legge sul consenso informato e biotestamento approvata da PD e Cinque stelle a fine legislatura. Si è trattato di eutanasia o no? Se sì, di che tipo? È stato giusto farlo? Quali conseguenze sono prevedibili? Per sbrogliare la matassa vorrei partire da un caso precedente, quello di Piergiorgio Welby. Anche in quel caso c’era un’insufficienza respiratoria irreversibile che richiedeva l’assistenza ventilatoria meccanica. Anche in quel caso il paziente fu sedato, la ventilazione fu interrotta, il paziente morì per soffocamento. Allora la Chiesa definì quello un caso di eutanasia e, coerentemente con ciò che ha sempre insegnato, negò i funerali religiosi.
Per il caso di Patrizia Cocco il comportamento è stato differente. Due pesi e due misure? Procediamo a ragionare avendo ben chiaro che cosa sia l’eutanasia. La definizione precisa la Chiesa l’ha fornita in un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede di quasi 38 anni fa, conosciuto come Iura et Bona: «Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati». Si tratta di una definizione totalmente accettabile anche per un non credente, tanto che essa coincide perfettamente con la definizione offerta dal dizionario medico impiegato dal National Institute of Health. Nel caso di Welby, così come nel caso Cocco, l’azione è stata l’interruzione della ventilazione. Essa è stata capace di procurare la morte, tanto che prima di eseguirla i pazienti erano vivi e dopo di essa erano morti. È stata senz’altro eseguita per porre fine alla sofferenza del paziente (la parola paziente ha la sua radice etimologica nella parola greca che indica il soffrire).
Dunque ogni volta che un sostegno vitale viene interrotto ed il paziente muore, allora si tratti di eutanasia? La risposta è netta ed è negativa, perché, come da definizione, nel giudizio è imprescindibile considerare anche l’elemento intenzionale. La riflessione morale teologica già secoli fa si pose il seguente problema: posto che la vita è un bene primario, perché da essa dipendono tutti gli altri beni, posto che essa è un dono di Dio, dato dunque per acquisito che esista il dovere morale di conservare la vita, si tratta di un dovere assoluto o esistono dei limiti e quali? Detto in altro modo, si commette un male se si rifiutano le cure e da questo deriva la morte?
Nel XVI secolo erano state da poco inventate le armi da fuoco, esse determinavano ferite che se non provocavano la morte immediata, risultavano spesso comunque letali perché si complicavano con la gangrena. Uno dei rimedi più conosciuti era l’amputazione degli arti (al tempo senza l’anestesia). «Si è obbligati a farsi amputare un arto per salvarsi la vita?», si chiedeva il docente domenicano dell’Università di Salamanca Domingo de Soto. Questa è la risposta che dette nel V libro del De iustitia et iure: «Dal momento che nell’amputazione di un arto c’è un dolore grandissimo (ingens dolor), certo nessuno può esservi obbligato, perché nessuno può essere obbligato a conservare la vita con tanto tormento (cruciatus). Né lo si deve giudicare un suicida. Vero è quel grido del Romano (Caio Mario) mentre gli veniva aperta la gamba: “La salute non è degna di tanto dolore”».
È interessante per le implicazioni sulla nutrizione e idratazione assistita, ciò che dice un altro grande esponente domenicano della scuola teologica di Salamanca del XVI secolo, Francisco de Vitoria: «Se una persona non può prendere il cibo se non con una modalità che rappresenta una tortura, questa persona non può essere colpevole di commettere un peccato mortale». Come rileva Maurizio Calipari nel suo approfondito studio, almeno 40 autori si sono occupati dell’argomento. Essi, seppure con sfumature diverse, sono accomunati da un fatto: il giudizio sulla moralità dell’agire si concentra sui mezzi per conservare la vita. Nessuno assume la qualità di vita che risulta dal loro impiego per giudicare moralmente la rinuncia ai trattamenti medico-chirurgici.
Per questo, fu il domenicano Domingo Bañez a coniare il termine nel 1595, i trattamenti furono distinti in mezzi ordinari e straordinari, dove i secondi erano tali se per applicarli era richiesto al paziente uno sforzo massimo (summus labor), un certo tormento (quidam cruciatus), o un costo straordinario (sumptus extraordinarius), o se essi determinavano un dolore notevole (ingens dolor), se incutevano paura intensa (vehemens horror), se erano mezzi troppo duri (media nimia dura), o costosi (media pretiosa). Il termine ordinario, non significa usuale, ma indica un mezzo ordinato al bene, nella prospettiva e nella situazione vissuta dal paziente.
A tale dicotomia si è successivamente aggiunta quella di mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati. Anche in questo caso ci si riferisce ad un concetto che si riferisce alla valutazione di una ragione morale proporzionata al rispetto dovuto nei confronti della preservazione della vita umana, ma anche qui non si tratta di una valutazione che usa la qualità della vita quale parametro consequenzialistico che decide della moralità del trattamento. Quando Piergiorgio Welby ha voluto l’interruzione della ventilazione ed è stato accontentato dal dr. Riccio, egli non ha formulato la richiesta perché la ventilazione gli fosse diventata straordinaria o sproporzionata (evento che nella casistica clinica è eccezionale), ma perché la vita non aveva più una qualità tale da soddisfare lo standard necessario per continuare a vivere. Lo scrisse chiaramente nella lettera indirizzata a Napolitano dove egli espressamente affermò di sognare, volere, richiedere di «poter ottenere l’eutanasia».
Poiché l’intenzione, cioè l’oggetto su cui poggia la volontà di chi agisce, era chiaramente espressa rivelando pubblicamente la volontà di morire (e non il desiderio di interrompere un trattamento che si rivelava futile o più causa di sofferenza che sollievo), la Chiesa decise giustamente di proteggere la fede del popolo e la giustizia rifiutando il funerale religioso. Nel caso della signora Cocco non abbiamo uguale pubblica ed inequivoca attestazione delle intenzioni che l’hanno mossa nella sua scelta. La dichiarazione del suo avvocato, seppure sembri indicare un intento eutanasico, non è stata considerata sufficiente a giustificare analogo provvedimento da parte della Chiesa.
Fino a qui abbiamo esplorato la dimensione morale, ma la legge non coincide esattamente con la morale, essa deve limitarsi ad indicare i fatti illeciti e non può certo farlo sulla base della sfuggevole motivazione (se non per attestare l’elemento soggettivo colposo o doloso, o come accessorio circostanziale aggravante o attenuante). Di qui il problema di distinguere tra il reato di omicidio del consenziente e il diritto ad interrompere cure straordinarie o sproporzionate da cui derivi la morte. Ciò che appare certo è che anche prima della legge sul fine vita, di cui si celebrano le virtù, il comportamento tenuto dai medici nel caso di Patrizia Cocco era lecito. Mario Riccio, il medico che interruppe la ventilazione a Welby, fu infatti prosciolto dal Gip, né l’Ordine dei medici ha proceduto contro di lui.
A dispetto delle fantasie di qualche giurista cattolico assai sopravvalutato, felice di superare il paradigma ippocratico, pare di potere dire che i giudici hanno imboccato la strada che esclude dalla fattispecie di omicidio del consenziente l’interruzione di un trattamento di sostegno vitale, indipendentemente dalle motivazioni, includendolo nel diritto a rifiutare le cure. Questo rende ipso facto l’eutanasia commissiva attuata mediante interruzione di un sostegno vitale un comportamento che l’ordinamento considera non solo lecito, ma, grazie alla legge approvata, un diritto esigibile attraverso medici ridotti a meri esecutori. Se infatti il rifiuto di staccare il respiratore a Welby non è stato un comportamento contestato da nessun giudice, con la normativa vigente ciò non è più garantito.
Il medico non è un bambino, tanto meno un automa, non è un esecutore, il suo agire deve avvenire “in scienza e coscienza”, ma se è convinto che un trattamento salvavita sia proporzionato e che la richiesta d’interromperlo abbia motivazioni eutanasiche, oggi non ha più dalla sua parte la legge a garantirgli il diritto di dire no. Detto in altro modo, è come se la legge affermasse che la coscienza del medico vale meno della coscienza del paziente. È questo costituzionale? L’equipe medica che ha presenziato alle operazioni di interruzione della ventilazione alla signora Cocco e la struttura sanitaria sarebbero potuti essere chiamati a rispondere penalmente in caso di rifiuto (rifiuto di atti di ufficio, violenza privata), per cui viene da domandarsi quanto sia stata libera la condotta dei sanitari.
Un nodo che peraltro prima o poi verrà al pettine sarà il seguente: una volta stabilito che il diritto a rifiutare le cure non è basato sul fatto che le cure sono intollerabili, ma sulla percezione di una bassa qualità di vita che ha reso intollerabile la vita stessa, si assisterà al paradosso che disabili che desiderano morire potranno ottenere ciò che vogliono se a mantenerli in vita sarà un trattamento medico, ma non potranno morire se invece non ricevono trattamenti di sostegno vitale. Se un paziente con disturbo grave della coscienza è alimentato col sondino nasogastrico come lo era Eluana Englaro, il tutore potrà esigerne la morte, ma se invece si alimenta col cucchiaino e beve dal bicchiere, allora il tutore non potrà porre fine alla sua vita. Non è lontano il momento in cui la macchina eutanasica partirà da una tale difformità per invocare, per chi non ha la “fortuna” di essere tenuto in vita dal presidio medico, il diritto all’iniezione letale.
Infine, se il consenso informato (come afferma la legge definita “di civiltà” dal capogruppo PD al Senato Zanda) è il fondamento dell’atto medico ed è in ogni momento revocabile, e ciò ha consentito alla signora Cocco il diritto a vedersi rimuovere la cannula tracheale revocando quel consenso informato che aveva sicuramente fornito quando la tracheostomia le era stata confezionata, perché un altro paziente, divenuto tetraplegico a seguito di un incidente stradale, o ammalatosi di SLA, revocando il precedente consenso, non dovrebbe ottenere la morte esigendo la rimozione di un by-pass coronarico, una protesi vascolare, o un organo trapiantato? Una volta intrapresa la strada della mera esecuzione, il medico dovrà essere pronto a soddisfare ogni desiderio del cittadino utente, quantunque gli possa apparire insensato e capriccioso, o pagare le conseguenze di un eventuale rifiuto.
Renzo Puccetti
La Nuova Bussola Quotidiana, 12 febbraio 2018