Le recenti clonazioni di antropomorfi aprono a tanti interrogativi. Leggendo un libro di interviste a studiosi come Giacca, Cingolani, Martinelli e Strata ci si chiede: sappiamo davvero dove andiamo?
Anno 2018: sono realizzati i primi prototipi basati sul grafene. 2019: l’uomo indossa permanentemente devices digitali che ne ‘aumentano’ i sensi. 2020: Google mette in commercio le prime self-driving car. 2021: l’uomo mangia i primi polli di laboratorio e può caricare i contenuti del proprio cervello in un computer. 2025: la terapia genica riesce a rigenerare completamente alcuni organi tra cui il cuore; gli umanoidi affiancano gli uomini nella gestione delle case; si applicano esoscheletri al corpo umano e gli elettrodomestici sfruttano celle combustibili vegetali. 2030: diventa possibile lo sfruttamento delle risorse minerarie sugli asteroidi. Sembra la traccia di un romanzo di anticipazione uscito dalla penna di Philip Dick e invece è la realtà occhieggiante dietro il prossimo angolo. Ne abbiamo avuto un assaggio qualche giorno fa con Zhong Zhong e Hua Hua, le due scimmiette clonate nel Celeste Impero. Le tappe scandite non sono frutto di uno slancio della fantasia. Certo, le previsioni sono sempre flessibili e procrastinabili o anche irrealizzabili. Eppure la direzione verso cui si procede è questa.
Piaccia o non piaccia. Lo confermano tredici scienziati italiani intervistati da Francesco De Filippo e Maria Frega in Prossimi umani. Dalla genetica alla robotica, dalla bomba demografica ai big data… Come sarà la nostra vita tra vent’anni (Giunti). Quanto raccontano Mauro Giacca, direttore del Centro Internazionale di Ingegneria Genetica e Biotecnologie, Roberto Cingolani, direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, Umberto Guidoni, primo astronauta europeo in missione nella Stazione spaziale internazionale, Guido Martinelli, già direttore della Sissa di Trieste e gli altri ha di che lasciare attoniti. Non è più il tempo dei tecnofobi né dei tecnofili.
È il tempo del pensiero. Occorre fugare ogni semplificazione e interrogare le trasformazioni in atto che, volenti o nolenti, ci investiranno. Trincerarsi dietro veti deontologici e moralismi ontologici porterà a essere scavalcati e fagocitati dallo sviluppo delle tecnologie. A dover rincorrere il già fatto, rinunciando invece a dare la direzione a quello che è in atto già oggi. Per Aristotele la filosofia nasce da thauma, da quell’angosciante stupore, come traducono Friedrich Nietzsche e Emanuele Severino, che spinge a interrogarsi e non alla afona stupefazione o alla dionisiaca esaltazione. Ora è il momento di rimboccarsi le maniche e pensare a scenari inediti. Quando Mauro Giacca sostiene che «la scienza stia destrutturando l’uomo» mette davanti a un fatto compiuto. Però quando ammonisce i filosofi a ritrarsi perché «il pensiero e la personalità sono il risultato di piccole variazioni genetiche» o «il buon senso è il risultato di geni» lascia di stucco e proietta l’umanità in un orizzonte claustrofobico e privo di libertà. E impone una domanda: sarà davvero come dice lui?
Simile orizzonte si adombra anche dietro le parole di Piergiorgio Strata, a lungo collaboratore del premio Nobel John Eccles, quando rilancia, dopo Benjamin Libet, l’illusorietà del libero arbitrio. Stando a queste premesse avremmo ben poco da dire o da fare. Fosse vero, al massimo, riconosceremmo che «il compito della coscienza – ancora Strata – è quello di prendere atto di quanto il cervello ha deciso e modificare la struttura dei suoi circuiti sotto forma di memoria, utile per le future decisioni». Eppure al netto di posizioni che, per un ignorante come lo scrivente, hanno anche il retrogusto dello scientismo, dalle interviste emergono le rivoluzioni con le quali dobbiamo fare i conti.
Gli uomini solcati da robot anticorpo non intercettabili dal sistema immunitario; quelli dotati di esoscheletro per sopperire a disabilità convertendo lo stimolo muscolare in impulso elettrico; o quelli che attingono all’organ on chip, banche di tessuti e organi da usare alle bisogna; o quelli ancora che depositano la propria memoria su hardware esterni inseguono quel «perfettismo cioè quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti alla immaginata futura perfezione – che è effetto dell’ignoranza e che consiste – avverte Antonio Rosmini nella sua Filosofia politica – in un baldanzoso pregiudizio, per il quale si giudica dell’umana natura con mancanza assoluta di riflessione ai limiti naturali delle cose?». Gli stessi limiti, ricordati da Mauro Giacca, posti dalla genetica, superati i quali sarebbe obsoleto, dice l’ignorante scrivente, parlare di uomo e di Prossimi umani? L’importante è sapere, scienziati e non, dove si intende andare. E questo senza moralismi ma con vocazione al pensiero.
Simone Paliaga
Avvenire, 13 febbraio 2018