Un lettore ci chiede come prendere il diniego dell’assoluzione fattogli da un confessore. Beh, ci pare ovvio: come uno sprone a porre a sé stesso e alla propria storia una domanda seria e radicale. È ora di prendere in mano la propria vita e per mano la propria donna. Be brave, get married!
“Confessandomi la scorsa settimana il Padre non mi ha assolto e mi ha vietato di prendere la comunione perché attualmente convivo con la mia fidanzata, siamo da 9 anni insieme e conviviamo da luglio ma esclusivamente perché entrambi per motivi lavorativi ci siamo trasferiti in altra città e per motivi economici non possiamo pagare due affitti… entrambi siamo credenti, andiamo a messa e l’intenzione di sposarci in chiesa c’è tutta… questa cosa mi sta facendo soffrire molto… non potrò ricevere davvero l’eucaristia finché non ci sposiamo? Grazie per la risposta ed eventuali consigli”.
Come spesso accade, quando ci sembra di aver subito un’ingiustizia da parte della Chiesa (la quale invece è chiamata ad essere “collaboratrice della nostra gioia” – cf. 2Cor 1, 24) siamo noi che ci impuntiamo ponendo le domande sbagliate. Al lettore che ci chiede, dunque, se davvero non potrà fare la comunione finché non si sposa, noi rispondiamo con una domanda: «Ma perché non ti sposi? Anzi, più correttamente, perché non sposi la tua donna?».
Sei fidanzato da 9 anni, dunque probabilmente non sei più un adolescente, ami questa donna e vuoi vivere con lei. Allora qual è il problema? Sposala. Il problema non è, banalmente, che voi andiate a letto insieme (per quanto la magagna dei rapporti pre-matrimoniali sia che sono pure extra-matrimoniali…): il problema vero è che al momento tu non stai vivendo con la virilità di Cristo, ma ti stai conformando alla mollezza effeminata e ambigua del mondo. Il riferimento scritturistico è sempre il solito: Ef 5. Prendiamo anzitutto il “pezzo forte” (nella parte che, in quanto uomo, riguarda di più il nostro lettore):
“E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!” Ef 5, 25-32
Amare «con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Deut 6, 5 in Mt 22, 36 e Mc 12, 30), come la Legge prescriveva di amare Dio – perché è Dio in Persona che così ci ha amati –: questo è richiesto a noi uomini, darci senza riserve, dare la vita guardando alla nettezza virile con cui Cristo ha perseguito il suo disegno d’amore. Perché questo? Perché è questa donazione che torna in frutto – ed è donazione seminale che implica e postula la totalità definitiva della disponibilità ad accogliere un figlio, ma non solo – e tutto il resto è parziale quando non caricaturale a suo confronto. Questo è ciò che ci permette di trovare la nostra donna «tutta gloriosa, senza macchia né ruga né alcunché di simile» – diceva bene il Papa: «Il marito rende la moglie “più donna” e la moglie rende il marito “più uomo”».
Sì, ma «l’intenzione di sposarsi in chiesa c’è tutta», precisi tu. Mi fai tornare in mente una scena memorabile di Borotalco: «Adesso giusto er tempo de… così, de ingranare co’ ’sto lavoro nôvo…»
Non c’è bisogno di avere Mario Brega di fronte, caro amico lettore, per guardarci dentro e riconoscere che in questi ultimi anni abbiamo fatto – ciascuno di noi – mille cose, se veramente volevamo farle. Quelle che non abbiamo fatto non le abbiamo fatte appunto perché non volevamo farle.
Bada, ciò non vuol dire – ci mancherebbe, non mi permetterei mai! – che tu non ami veramente la tua fidanzata, ma è un fatto che tu non le stia conferendo quella dignità adamantina che le daresti sposandola e accogliendola in moglie. E guarda, non penso proprio di star operando una forzatura: lo stesso autore della Lettera agli Efesini aveva dettato, due righe sopra, queste parole: “Vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi; profittando del tempo presente, perché questi giorni sono cattivi. Non siate perciò sconsiderati, ma sappiate comprendere la volontà di Dio”. Ef 5, 15-17
Si tratta proprio di non essere sciocchi, non di “obbedire a un precetto eteronormativo per stare in pace con la propria coscienza di cattolici”. Dipende solo da te? Certo che no: è vero che ci si sposa in due… e tuttavia è innegabile che nella fenomenologia delle nozze ci sia una certa asimmetria. Dopo un secolo e mezzo di femminismo si tende a minimizzare questo aspetto, ma ciò ha comportato lo stereotipo dell’uomo che viene trascinato all’altare. Così nel 1890 solo il genio di Wilde poteva scrivere: “Gli uomini si sposano perché sono stanchi, le donne perché sono curiose: gli uni e gli altri restano sempre delusi”.
Ma nel suo Ritratto di Dorian Gray questa frase suonava – scandalosa e apodittica come tutte le altre – dalla bocca del diabolico Lord Henry Wotton: oggi non fatichiamo a trovarla tutti “culturalmente condivisibile” – e ciò è spaventoso. Appunto di questo però parlava Paolo (o il suo discepolo che avrà rimaneggiato la Lettera agli Efesini), quando all’inizio del capitolo affermava esplicitamente: “Quanto alla fornicazione e a ogni specie di impurità o cupidigia, neppure se ne parli tra voi, come si addice a santi; lo stesso si dica per le volgarità, insulsaggini, trivialità: cose tutte sconvenienti. Si rendano invece azioni di grazie! Perché, sappiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro, o avaro – che è roba da idolàtri – avrà parte al regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi inganni con vani ragionamenti: per queste cose infatti piomba l’ira di Dio sopra coloro che gli resistono. Non abbiate quindi niente in comune con loro. Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente, poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare”. Ef 5, 3-12
Tutto ciò che di opportuno e di vero si può dire sulla legge della gradualità (e molte volte, anche su queste pagine, io stesso ne ho parlato) non può mai arrivare a sopprimere la proclamazione di questa verità: lo stesso operato pastorale di Papa Francesco a null’altro è finalizzato che a restituire a tutti la forza di accogliere codesta verità. E poi credimi, lo dico per esperienza personale: lasciare il padre e la madre e unirsi alla propria donna – formare una vera nuova famiglia, con tutto ciò che tale impegno irrevocabile comporta – è davvero una rivoluzione liberatoria che risana la vita. Tutto il resto, a confronto, è vivacchiare, è accontentarsi. Ami la tua donna? Allora sposala.
E potrai ora chiedermi perché io dica “sposala” e non “sposatevi”. In effetti mia moglie ricorda ancora con divertita ironia la mia “fatidica domanda”, che non riuscì a piegarsi alla formula “…vuoi sposarmi?”, ma la riscrisse in “…vuoi essere sposata da me?”. Molto cacofonica, ne convengo: ma storicamente e filologicamente più esatta… nonché esistenzialmente più appropriata. A questo facevo cenno quando poco sopra scrivevo di una certa asimmetria nell’atto dello sposarsi: le lingue antiche hanno sempre avuto scrupolo di renderne conto, mentre talvolta il “dogma dell’uguaglianza di genere” (che è falso se non si riferisce alla sola pari dignità!) ha adulterato perfino le relative traduzioni bibliche. Facciamo un rapido esempio, giusto per capirci.
E facciamo molto male quando noi, con la presunzione che solo agli ignoranti si addice, ingraniamo la quarta commentando che «erano tempi in cui le donne non avevano pari dignità» e altre sciocchezze qualunquiste: esistevano, nella sintassi greca e in quella latina, forme alternative e perifrasi che rendessero il concetto senza questa disparità. Eppure i Vangeli non se ne avvalgono. Sono misogini i Vangeli? Tutto l’opposto: gli evangelisti sanno bene, perché Gesù lo ha mostrato col suo virilissimo celibato, come sia una proposta ferma, franca e generosa a “stabilizzare” l’inquietudine del principio femminino.
«Femmine si nasce, donne si diventa»: lo diceva Simone de Beauvoir. Viceversa, è l’assunzione di una responsabilità quella che «libera l’uomo dallo stato volontario di minorità». “Intellettuale”, aggiungeva Kant che così spiegava l’Illuminismo (Was ist Aufklärung?). Eppure una vera illuminazione è quella che si accende nel cuore, esistenzialmente, quando si trova il proprio posto e si comincia a fare qualcosa di grande nella vita.
«Alla donna cosa resta?», chiederà qualcuno. Moltissimo, penso: la donna che vede farsi “la proposta” al medio-passivo è una donna che sa di non avere davanti un bamboccione pieno di tic edipici, ma realmente e semplicemente un uomo, in cui potrà non reiterare sic et simpliciter il suo complesso di Elettra, diventando invece la principessa che fin da bambina sognava di essere e aiutando così lui a diventare quell’eroe che dalla più tenera età anche lui vagheggiava di essere. Chi dice che il matrimonio sia la tomba dell’amore è un infelice e non sa – questo lo diceva Benedetto Croce (in Etica e politica), insomma non proprio un baciapile – che semmai esso è «la tomba dell’amore selvaggio».
Trovo geniale la riscrittura disneyana de La Sirenetta, nel suo trasfigurare in fiaba la triste vicenda narrata da Andersen; ma l’elemento del mutismo incantato della protagonista (già presente nell’originale) esprime simbolicamente il femminino archetipico, che gli gnostici valentiniani chiamavano appunto “silenzio”. Lì è una parola, definita e netta, quella che deve intervenire a rendere fecondo il silenzio. Nel film d’animazione del 1989 la parola virile era stata simboleggiata nel bacio. Dunque a te, caro lettore, dedico di cuore la canzone del granchio Sebastian: «Coraggio, baciala!».
L’alternativa è proprio nella differenza che c’è tra la versione anderseniana e quella disneyana: da una parte un principe che vuole bene alla sirenetta-principessa ma non sa darle quella dignità definitiva con il suo amore concreto e riconoscibile; dall’altra un principe che vede coronato il suo amore per vivere «sempre felice e contento» con la sua sposa.
Dopo aver sfiorato queste altezze, infine, mi spiacerebbe ricadere nella prosaica palude dei soldi, ma l’accenno al “non possiamo permetterci…” mi fa presentire l’obiezione-cardinale: come lo paghiamo il matrimonio? Guarda, caro amico, tutto quello che serve al vostro matrimonio per essere magico è la vostra audacia, la vostra intraprendente creatività che risponda a una chiamata all’obbedienza. Il resto interessa anzitutto a quanti hanno interesse a lucrare sulla vostra gioia (ops: un’assonanza con la natura della Chiesa… ma a rovescio!). Ho nel cuore il ricordo di un matrimonio – il mio, per grazia di Dio – che non ci è costato poi quegli spropositi che sentiamo in giro; il viaggio di nozze l’abbiamo fatto andandocene a zonzo per l’Europa in moto, ed è stato bellissimo… torno a ripeterti: l’unica ragione vera per la quale si rimanda il matrimonio è che non lo si vuole (e il più delle volte non lo si vuole perché non lo si capisce).
Ti saluto con una battuta, caro lettore: prendete esempio dal “matrimonio al volo” benedetto dal Santo Padre sul volo dal Cile al Perù. Io ne ho scritto solo sul mio blog e mantenendo nel complesso una posizione piuttosto ambivalente (soprattutto per le strane questioni legate alle informazioni fallaci…), ma al di là di ogni polemica più o meno pretestuosa una grande lezione il Papa ce l’ha lasciata, quella volta. Ha preso una coppia che conviveva e che da anni dichiarava di avere “tutta l’intenzione” di sposarsi in chiesa, ha saggiato la solidità della loro disposizione e poi ha benedetto le loro nozze senza che neppure potessero comprare l’abito e pagare una sontuosa festa. Quelli non s’erano sposati per un motivo futile come l’indisponibilità della chiesa prescelta – sai, le foto, il filmino… – e lui li ha richiamati all’essenzialità del sacramento togliendo loro perfino uno straccio di cappellina.
Pensaci, caro lettore, e passa presto all’azione: sposa la tua donna, falla felice e lascia che in lei ti faccia felice lo Sposo che ha dato tutto sé stesso. Senza riserve.
Giovanni Marcitullio
Aleteia, 8 febbraio 2018