Nove spaccate all’angolo di piazza Fontana, sotto il colonnato che porta in Duomo. Il camper della Ronda della Carità accosta ai jersey anti-terrorismo, trasformati dai writers in leopardi. C’è pure la beffa di questa savana, sullo sfondo, mentre il termometro segna -3 e il vento gelido taglia la faccia. Gli invisibili cominciano a raggrupparsi in un angolo.
Sono una decina all’inizio, «tutto normale» dice Dimitri dal finestrino mentre gli altri volontari – per stanotte anche Anna, Roberta, Francesco, Andrea e il caposquadra-istituzione Gino – raggruppano scatoloni pieni di panini e arance e biscotti. Il tempo di aprire il portellone per capire che non andrà così. In fila adesso ci sono già 50, forse 60 persone: sciarpe sulla bocca, mani viola, occhi lucidi. «Dai, forza, fuori i tavolini»: nel porticato comincia la distribuzione del cibo.
Che è niente, perché col pane mica ci si scalda «e tutte queste persone – spiega Gino – in realtà mangiano già nelle mense di cui Milano grazie al cielo abbonda. Questo spuntino per noi è l’occasione di avvicinarli, portarli a dormire al caldo, magari salvarli». Non riesce quasi mai, a dire il vero. Per loro, i senza niente, il camper invece è il faro. Perché nel camper, lo sanno bene, c’è la pietà delle coperte, dei sacchi a pelo, dei guanti. E allora eccoli lì, tutti ammassati, mentre Roberta tira fuori carta e penna e comincia il suo appello: Nikolov, Vasilica, Luigi, Delia. Funziona così, nel camper della Ronda: uno a uno i clochard si avvicinano al portellone mezzo aperto e consegnano il tesserino di riconoscimento della mensa. Gino sta in piedi, li accoglie con una battuta e chiede di che c’è bisogno: «Rasoio? Schiuma da barba?». «Sì rado, rado» ripete Amid come un bambino. Nella foto era un medico: sguardo distinto, occhiali alla moda. Chissà cosa c’è, in mezzo, tra quell’uomo e il fantasma di piazza Fontana. Tocca a Giorgio, classe 1955: «Per me niente spazzolino, tanto denti non ne ho più». Ride anche lui. «Dove dormi stanotte?» chiede Roberta. «Parco Sempione ». «No troppo freddo, vai al mezzanino, è aperto per voi». «No no – si intromette Mihai, un ragazzone romeno di quasi due metri – noi stiamo a Sempione, siamo più sicuri». «E quanti siete? ».
«Venti, scavalchiamo e lì non ci ruba nessuno». Il mezzanino di Stazione Centrale è l’oasi del Burian, e di ogni emergenza freddo milanese. Almeno sulla carta. Quando la temperatura scende troppo, il Comune decide di aprire le porte della galleria secondaria della metro, con le brande. Non c’è niente laggiù tranne il caldo benedetto, quasi soffocante. «Ma io non ci vado» urla da più dietro ancora Ivan, «sicuro io, là troppo casino». Il gruppetto di romeni tira Giorgio per la giacca, raccoglie quel che può e parte per il Sempione. Tocca ai ragazzi adesso, e sembra incredibile. Massimo, Paolo, Gaetano: Roberta inizia ad annotare le date di nascita, 1991, 1994, 1996. «E che ci fai in strada, da solo, con questo freddo?».
Massimo viene da Catania, ha i capelli come Caparezza e le cuffie grandi alle orecchie per ascoltare la musica: «Hai un sacco a pelo?» chiede. Dorme in una scuola abbandonata, a Baggio. Gaetano invece in uno scantinato dalle parti di piazza Ovidio, «con altri 4 come me». Paolo sta zitto, sembra appena uscito da scuola con lo zaino carico e il piumino colorato. «Questo è il fenomeno nuovo degli ultimi due anni – racconta Gino, che sulla strada fa il volontario da dieci –, sono i neet, i ragazli zi che non fanno nulla e nulla sanno fare. Si allontanano da casa, probabilmente raccontano alle loro famiglie di aver trovato un lavoretto, di vivere con amici». E invece si perdono. Sono anche quelli più a rischio, «spesso finiscono nel giro dell’eroina più che dell’alcol » racconta Anna, che intanto ha finito di versare il té. Massimo lo porta nel cuore, su per giù sono coetanei, «e temo che ci sia finito dentro, nel giro della droga». Alle dieci e mezza i sacchi a pelo e le coperte sono finiti, la fila no. Gino rivolta ogni anfratto del camper: «Niente da fare. Dio mio…». Che si fa, con chi aspetta, a -3. «Le giacche, le giacche».
Ne smistano quattro o cinque. Poi Dimitri e Francesco, fuori, riescono a convincere un gruppetto ad andare al mezzanino: «Vi do il biglietto, ci penso io» dice Gino, che firma qualche pezzo di carta trasformandolo in passaporto. Loro partono a piedi: 5 su 60. Sul camper invece sale Paolo, che vive in piazza Fontana «ma stanotte non ci sto, troppo freddo, e io sono stanco. Sono stanco da morire». Gino lo consola: «Stanotte si va col camper, Paolo, al mezzanino». All’arrivo brillano le sirene dell’ambulanza: «Si tengono pronti per qualsiasi intervento» spiega Anna. Dalle scale sale veloce un volontario del Progetto Arca: «È l’ultimo vostro?». Gino sorride: vuol dire che gli altri sono arrivati. Paolo scende le scale mentre un gruppo di altri clochard, alticci, vengono tenuti fuori dalla palizzata di acciaio: «Così non possiamo farvi entrare lo sapete».
È l’unica legge, per passare la notte nell’oasi senza che diventi un inferno di risse. Mezzanotte passata, bisogna andare di corsa: il Casc (il centro operativo del Comune che coordina le unità di strada, 8 ogni notte a Milano, ognuna su una zona della città) ha chiamato chiedendo di verificare sei segnalazioni ricevute al centralino emergenze dai cittadini. Largo Augusto, la fontana vicino alla Bocconi, il bancomat di piazza Cinque Giornate: «Se non ci cercano dobbiamo cercarli noi, assicurarci che stiano bene».
A quel punto, dopo il controllo, la comunicazione torna al Casc, che archivia la pratica. Il camper si lascia il mezzanino alle spalle e sfila davanti al tappeto di coperte steso a perdita d’occhio sotto i portici di via Vittor Pisani: «Saranno decine» sussurra Roberta. Stesi sul marmo a qualche metro appena dal caldo e dall’ambulanza. È morto lì Max, 47 anni, italiano: ieri mattina quando gli altri si sono alzati lui è rimasto a terra. Faceva il cuoco, prima della strada. Gli avevano chiesto di scendere nella metro. Aveva detto di no. E mentre i volontari si affannavano a salvare vite, su e giù per la città, coi centri d’accoglienza aperti e i posti vuoti (quasi 200) il Burian se lo portava via. Insieme a un altro come lui, lontano da qui, nel Ferrarese. Due brande in più nell’altro mezzanino.
Viviana Daloiso
Avvenire.it, 28 febbraio 2018