La morte di Astori. Davanti alla fragilità della vita piango e attendo come Marta e Maria

By 4 Marzo 2018Attualità

Del capitano viola tutti ricordano la sua onestà e la sua lealtà. Ma la sua morte per infarto improvvisa e inspiegabile rivela qualcosa in più.

Davide Astori, il capitano della Fiorentina morto nel suo letto per un infarto inspiegabile mentre era in ritiro con la squadra, due miracoli li ha già fatti. Impedirà che oggi i giornali parlino solo di elezioni e ha dato uno stop a un campionato che non si era fermato neppure per Rigopiano. Era avvenuto giusto un anno fa, il 17 gennaio 2017. Una valanga aveva fatto 29 morti, ma lo “spettacolo” calcistico era andato avanti: tutto intero, compreso il Pescara, la squadra del territorio scosso dalla tragedia. Ieri invece, uno come Gattuso, ha twittato: “Non posso pensare al derby dopo una tragedia tale, non posso. Vi prego rimandate tutte le partite, vi prego. Tutto perde senso così. Ciao Davide”.
Scorrendo le dichiarazioni, ti accorgi che tutti ricordano la sua onestà, la sua lealtà, il suo appartenere a un mondo di valori “che non c’è più”. Forse però c’è qualcosa in più, qualcosa d’altro. Ed è che la morte di Astori è davvero senza spiegazioni. A meno di sorprese che tutti escludono, si parla di “morte bianca”: è la morte improvvisa, è l’arresto cardiaco vero e proprio, un arresto cardiaco, cioè, senza alcuna spiegazione; d’altra parte, chi c’è più controllato di un atleta professionista?
Tutti moriamo perché il cuore si ferma, ma in genere il cuore si ferma per qualche motivo: invece nel caso della “morte bianca” è come se ci fosse nel cuore una sorta di cortocircuito e, in modo del tutto inspiegabile e imprevedibile, il cuore si ferma e sei morto. Questo significa che stiamo parlando di qualcosa che può capitare a chiunque: questa sera vado a letto e domattina mi trovano cadavere.
Ma noi, gente normale e gente qualsiasi, con questo pensiero vero e tremendo non possiamo convivere, per cui noi diciamo a noi stessi: questo pensiero non è verosimile, non è possibile. Sarà vero in astratto, ma non per me, perché l’altro giorno io ho fatto un check up, ho donato il sangue e mi hanno fatto le analisi, e così via.
E invece no, non è così, questa volta la morte di Astori non è colpa di nessuno. Si chiama caso, fatalità, destino, la fragilità della vita umana. Si chiama, più realisticamente, la nostra vera condizione su questa terra: è “solo un soffio ogni uomo che vive” dice il Salmo (39, 144) ed è proprio così. Noi, quando qualcuno sta male, diciamo che è “in punto di morte”. Lo diciamo a bassa voce, sospirando, guardandoci gli uni gli altri con la coda degli occhi, ma la morte di Davide Astori ci dice che in realtà ciascuno di noi è continuamente “in punto di morte”, noi siamo tutti “in punta di morte”. E allora?
E allora c’è un solo modo di capire la morte, ed è lo stesso modo di capire la vita: viverla tutta, morte compresa. Non ci sono discorsi che possono far andare via la paura di morire. Non c’è un modo bello di parlare della morte, a meno che non si voglia fare accademia. Soffrire, provare paura, esitare, tacere e affidarsi, sono gli inevitabili sentimenti che ci accompagnano non appena la morte ci sfiora. Insomma, la morte non bisogna “parlarla”: bisogna viverla. Bisogna vivere anche la morte per capire la vita.
Sembra un gioco di parole, ma è perché ogni discorso sulla vita che non sia il semplice viverla diventa, in verità, uno scioglilingua che sembra dire qualcosa, ma in realtà non dice nulla. Perché la vita sono le nostre singole vite e l’unico modo di parlarne è far entrare gli altri nella propria vita. Così la vita si condivide e allora diventa testimonianza, se proprio vogliamo usare un parolone.
Sono prete e lo so anch’io che la morte non conclude nulla, ma che la vita continua, la resurrezione, la vita eterna, eccetera eccetera, lo so. Ma so anche che con il dolore degli altri bisogna andarci piano. E non penso solo alla croce, al calvario, ma anche alla morte dell’amico, di Lazzaro, o di Davide Astori.
Gesù è passato attraverso la morte dell’amico. Di Lazzaro non sappiamo nulla, non sappiamo perché era suo amico. Lo sapevano solo loro due, perché erano loro gli amici. Anche lui è arrivato tardi, quando l’amico era già morto, anche lui si è sentito dire “perché non eri qui”. Anche lui sa che quando un amico, un fratello, chi ami, muore, tu piangi. Punto. Soffri. Punto. Non c’è discorso sulla resurrezione e la vita eterna che possa colmare la conclusione, la fine, la perdita, la mancanza, la morte di chi ami. Gesù sapeva che le sue parole di lì a poco avrebbero riportato in vita l’amico. Ma la morte è stata buia pure per lui che è la luce, e lui in quel buio, in quel pianto ci è passato: chi si scandalizza di queste mie parole vada a leggere il Vangelo.
E allora se mi chiedono di dire qualcosa, di scrivere qualcosa sulla morte di un ragazzo di 31 anni, bravo compagno, bravo padre, bravo collega, bravo amico, bravo capitano, io parlo di Gesù e del suo dolore, di Gesù e del suo buio, e dico che il Vangelo dice che anche Gesù, a un certo punto della morte di Lazzaro, non ci capisce niente e non sa a chi dare i resti.
E poi attendo, come hanno atteso Marta e Maria, che Lui faccia quello che farà. Perché la fede è attesa.

Mauro Leonardi
Il Sussidiario.net, 4 marzo 2018