I casi dei due bambini inglesi mostrano che servono strumenti certi per fondare decisioni drammatiche su basi solide. Mentre c’è chi parla di qualità della vita attesa.
Anche per il piccolo Isaiah Haastrup è arrivata la morte al King’s College di Londra, dove era ricoverato per la grave invalidità causata da un parto drammatico. Morte procurata dai medici – come per Charlie Gard, come sta per esserlo per il piccolo Alfie – dopo che la Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo ha dichiarato inammissibile il ricorso dei genitori, che chiedeva di continuare il trattamento salvavita.
Questi casi di sospensione della ventilazione a bambini molto piccoli e gravissimi reclamano chiarezza sul fatto che è inaccettabile che si sospendano le cure a chi ha possibilità di continuare una vita, seppur con disabilità o addirittura con grave danno cerebrale se le cure non sono futili; e che la futilità o la gravosità devono venire oggettivate da dati misurabili. Su questo la rivista Acta Paediatrica di febbraio mostra dati inquietanti dall’Olanda: si possono sospendere le cure in base alla qualità di vita attesa.
Come dunque regolarsi per non scambiare la futilità delle cure con un’improbabile futilità della vita? Il primo passo è l’oggettività dei dati, che non può essere offuscata da pareri personali. I genitori o un tribunale sono i tutori dell’interesse del bambino e non devono far altro che tutelarlo al massimo.
Le alternative sono una medicina consumistica, con la quale si ottiene ciò che si chiede, o una medicina delle scorciatoie, che si arrende troppo presto per la pigrizia di non aver raccolto tutti i dati o per il pregiudizio. Il rischio è che si sospendano le cure non per inutilità o insopportabilità ma di fronte a una vita con disabilità grave. Ma disabilità non significa necessariamente sofferenza, se non nei casi in cui la medicina sa e deve misurare, diagnosticare e curare per via ordinaria o con palliazione, arrendendosi solo nell’impossibilità di trattarla. Talune risposte, come quella offerta sul Journal of Medical Ethics da Julian Savulescu e altri autori, secondo i quali i genitori possono scegliere per il figlio un trattamento diverso da quello ottimale, sembrano invece una deroga al principio di tutela. E ci preoccupano. Se una cura dà dolore, e questo dolore è drammatico e non si può curare, va sospesa. Bisogna però che il dolore sia documentato e non ipotetico.
Ma esiste davvero il modo per misurare il dolore e lo stress anche in chi non parla, o addirittura è in coma? In realtà, sì. È possibile dar conto del dolore fisico misurando ad esempio il livello di cortisolo o adrenalina, ormoni che sono segno di stress, o valutare altri indicatori di disagio, come lo stato del sistema nervoso autonomo. Ma anche altre misurazioni possono essere utili per gli adulti gravi: si possono misurare ansia, depressione, stress e capire se sono di alto o basso grado, comprendere quanto nelle richieste di fine vita influisca il suo livello di depressione o di ansia patologica, entrambi fenomeni che ne possono alterare la lucidità e su cui si può e si deve intervenire, come mostra l’ultimo numero della rivista Psycho-oncology. La misurazione di certi dati sarebbe fondamentale in chi non si può esprimere, ad esempio un soggetto in coma o in stato vegetativo, perché è troppo facile farsi prendere dalle emozioni e sottovalutare o sopravalutare il livello di sofferenza. Troppe volte abbiamo sentito motivare sui media richieste di sospendere le cure con l’interesse del paziente, per evitargli sofferenze senza capire se questa fosse reale. Ora abbiamo strumenti che ci aiutano a determinarlo e non si può non tenerne conto.
Carlo Bellieni
Avvenire.it, 8 marzo 2018