La reazione più scontata, per certi versi banale, è metterla sul ridere. Come Totò: «Non posso, ho un appuntamento». O come Troisi in “Non ci resta che piangere”: «Aspetta che mò me lo segno». La questione invece è serissima. A dispetto di corna e cornetti, si tratta della più inattaccabile, certa, e quindi trascurata delle verità. Tutti, nessuno escluso, dovremo morire.
A ricordarcelo ora arriva anche una app per smartphone e tablet. Si chiama WeCroak, scaricarla costa 0,99 dollari, ed è frutto della collaborazione tra Hansa Bergwall pubblicitario newyorkese di 35 anni e il 27enne “sviluppatore” Ian Thomas. Cinque volte al giorno chi lo desidera riceve un gracidante messaggio, croak ricorda appunto il verso delle rane, a rammentargli la sua deteriorabile natura mortale. Niente facoltà di replica, nessuna possibilità di aprire un dibattito, solo puro ascolto e lettura di una delle oltre 350 frasi di un archivio virtuale che pesca da poeti, filosofi e pensatori celebri. Si passa da Marco Aurelio a Moliere, da Emily Dickinson a Pablo Neruda, da Charles Bukowski a Fernando Pessoa, da Lao Tzu a Margaret Atwood. La scelta del numero dei messaggi quotidiani rimanda invece al Buthan, Paese himalayano di tradizione buddista dove una credenza popolare attesta che pensare cinque volte al giorno alla nostra fine, rende la vita migliore e più felice.
«Una contemplazione regolare della morte – recita il sito ufficiale della app – può aiutare a stimolare il cambiamento necessario, accettare ciò che dobbiamo, lasciare andare le cose che non contano e onorare quelle veramente importanti». Una lezione di sobrietà e rigore, niente da dire. Solo stupisce un po’ che a offrirla sia una cattedra di pensiero smart come l’applicazione di un telefonino. O forse il tutto rientra in quel grande calderone che abbassa di livello ogni problema, con l’illusione di esorcizzarne la portata, di ridurne il potenziale esplosivo. Nel segno di una psicologia – scriveva padre Ernesto Balducci – che punta non già «a riconciliare con la prospettiva della morte i soggetti afflitti dall’angoscia, ma a ripulirli da quest’angoscia e restituirli al gioco della società del consumo e dell’edonismo».
Perché non c’è niente da fare, prima o poi tutti quanti dovremo fare i conti con il senso della nostra vita, cioè su cosa ci aspetta dopo e quindi sul come prepararsi “durante”, nella breve parentesi che racchiude i pochi anni del nostro passaggio terreno. Un tempo da valorizzare senza sprechi, da trasformare in dono per gli altri, da attraversare con coraggio, senza cedere alla dittatura del momento presente. «Pensare alla morte non è una fantasia brutta, è una realtà – ha detto ancora di recente papa Francesco in Casa Santa Marta –. Se è brutta o no dipende da me, come io la penso, ma che ci sarà, ci sarà». Una riflessione in apparenza semplice, sufficiente tuttavia a rovesciare i fondamenti teorici della app, le radici della cultura pop, del “carpe diem” digitale che la sottendono. Lì infatti si tratta di ricordare la morte per vivere meglio il presente, qui di considerare l’esistenza terrena non solo come via di bellezza e gratitudine ma in preparazione a quello che ci aspetta nel domani che verrà. E che sarà per sempre.
Ecco allora il senso di una cultura sapienziale che con san Francesco chiama «sorella» la «morte corporale», che con i monaci trappisti usa il memento mori come saluto, che educa al valore del presente con gli Esercizi della buona morte. Una pratica – consigliava don Bosco ai suoi giovani – che «consiste nel disporre in un giorno di ogni mese tutti i nostri affari spirituali e temporali come se di lì a poco dovessimo realmente morire». Non si tratta allora di eternizzare l’attimo, di pensarlo con nostalgia quando diventa passato, ma di considerare le esperienze quotidiane come tesserine di un mosaico che si completerà solo con il passaggio all’altra vita, che di questa è trasfigurazione ed effetto. «Per chi crede – sono parole del Papa – la morte, è una porta che si spalanca completamente; per chi dubita è uno spiraglio di luce che filtra da un uscio che non si è chiuso proprio del tutto. Ma per tutti noi sarà una grazia, quando questa luce, dell’incontro con Gesù, ci illuminerà».
Nessuna paralisi da paura allora, ma la ferma volontà di vivere appieno il tempo che il Signore ancora ci regala. Perché «l’importante – diceva Marcello Marchesi – è che la morte ci trovi vivi».
Riccardo Maccioni
Avvenire.it, 25 febbraio 2018