A quarant’anni esatti dalla strage di via Fani il processo di evaporazione delle due culture politiche più rappresentative della storia repubblicana può dirsi compiuto: in Parlamento non c’è nessuna forza politica di ispirazione cattolica e nessun partito che abbia nel suo nome la parola sinistra o la parola socialista.
A quarant’anni esatti dalla strage di via Fani che culminò, due mesi dopo, nell’assassinio di Aldo Moro, rimangono ancora tanti gli interrogativi sul movente di quella tragica pagina della storia repubblicana. Probabilmente ce ne vorranno almeno altri quaranta per alzare definitivamente il velo su responsabilità, complicità, finalità dell’eliminazione fisica dello statista pugliese. Fatto sta che da quel 16 marzo 1978 il corso della vita politica del Paese ha cambiato direzione e si è aperta una nuova stagione nelle relazioni tra i principali partiti della cosiddetta Prima Repubblica, cioè la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano.
Aldo Moro è passato alla storia come il fautore del “compromesso storico” tra quelle due grandi forze politiche e la spiegazione più semplice, ma anche forse più semplicistica e comoda dell’agguato di via Fani, fu quella di un disegno americano per impedire che in Italia i comunisti andassero al governo con i democristiani. Oggi non sappiamo con certezza quale sia la verità in merito. Si può tuttavia sgomberare il campo da ogni sospetto affermando che il rigore morale e intellettuale dell’allora Presidente del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana era agli antipodi dei tatticismi e dei calcoli convenientistici che ispirano le condotte e le scelte degli attori politici oggi in campo.
Moro guardava lontano e riteneva, a nostro avviso sbagliando, che fosse realizzabile una sintesi tra la visione cattolica della società e quella socialcomunista ancora ferma a schemi di matrice marxista e incarnata dal Partito Comunista degli anni ’70. Un errore, quindi, muovere nella direzione della conciliazione di quegli opposti, nel tentativo di assicurare stabilità al sistema, blindare le istituzioni democratiche e repubblicane, armonizzare e consolidare il corpo sociale. Troppo nette e irriducibili le distanze tra il cattolicesimo operoso e di marca liberale prevalente in quegli anni e il comunismo ancora legato a doppio filo all’Unione Sovietica e fortemente intriso di elementi ideologici e culturali anti-clericali. Non si sarebbe trattato, quindi, di una semplice formula politica, bensì di un compromesso storico alienante tra culture aventi radici profondamente diverse.
A distanza di quarant’anni, si può affermare che quelle culture sembrano scomparse del tutto dalla vita politica. Già nella cosiddetta Seconda Repubblica, nata sulle ceneri di Tangentopoli, il trionfo del berlusconismo sulla “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto ha inferto un duro colpo a entrambe quelle tradizioni culturali: via via sempre più sbiadita la caratterizzazione cattolica dei programmi del centrodestra, fortemente diluiti nelle strategie e negli atteggiamenti delle forze politiche di sinistra le intonazioni solidaristiche ed egualitarie, immolate sull’altare di una finanziarizzazione della politica, con un Pci-Pds-Ds sempre più schiavo di poteri forti e alta finanza. Fino ad arrivare a un Pd fortemente laicista e in grado di fagocitare anche quei residui riferimenti al cattolicesimo presenti nella proposta politica della Margherita.
Nella legislatura che si aprirà la prossima settimana, questo processo di evaporazione delle due culture politiche più rappresentative della storia repubblicana può dirsi compiuto: in Parlamento non c’è nessuna forza politica di ispirazione cattolica e nessun partito che abbia nel suo nome la parola sinistra o la parola socialista. Se il Pd è uscito fortemente ridimensionato, scendendo al suo minimo storico, gli scissionisti di Leu, che pure si vantavano di essere i depositari e i più fedeli interpreti di quelle idee di sinistra, non hanno brillato elettoralmente. Naufragio totale, invece, di tutte le forze di ispirazione cattolica: dalla deflagrazione del partito di Angelino Alfano sono nati due partitini, uno alleato della sinistra, l’altro alleato della destra. Civica popolare non ha raggiunto neppure l’1%, e quindi i suoi voti sono andati dispersi (Pier Ferdinando Casini e il ministro Beatrice Lorenzin sono stati eletti nell’uninominale grazie ai voti del Pd), Noi per l’Italia non ha raggiunto la soglia del 3% e i suoi rappresentanti come Maurizio Lupi sono stati a malapena riconfermati grazie all’appoggio dei partiti di centrodestra nell’uninominale, mentre Raffaele Fitto, Lorenzo Cesa e Roberto Formigoni non ce l’hanno fatta. A quarant’anni, dunque, dalla strage di via Fani, sembra trascorso in realtà un secolo e la vita politica attuale degradata e tecnocratica creerebbe molto disorientamento perfino a uno statista onesto e lungimirante quale fu Aldo Moro.
Ruben Razzante
La Nuova Bussola Quotidiana 17 marzo 2018