Secondo i dati Istat, le donne disabili in Italia sono circa un milione e settecento mila. Si tratta di donne sottoposte a una doppia discriminazione, causata allo stesso tempo dal loro genere e dalla loro condizione di disabilità. Ora, un progetto europeo vuole studiare questa condizione e formulare delle soluzioni.
Nel 2009, l’Italia ha ratificato e messo in atto la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. Nel 2016, il Comitato ONU ha richiamato l’Italia rendendo pubbliche le proprie osservazioni riguardanti la realtà italiana e, in particolare, il comportamento tenuto in merito alla Convenzione. Nonostante l’Italia si sia impegnata a realizzare un sistema di istruzione inclusivo, in molteplici aspetti è ancora troppo indietro e fatica a garantire pari diritti ai disabili in diversi campi.
Le osservazioni partono da una disparità di accesso al sostegno e ai servizi generata da differenti definizioni di disabilità nelle varie regioni italiane e nei vari settori. Si raccomanda di adottare un’unica nozione di disabilità, che sia in linea con la Convenzione e che venga rispettata a tutti i livelli di governo. Il Comitato si addentra poi nell’ambito dei diritti specifici ed evidenzia come manchi completamente un’integrazione di donne e ragazze con disabilità nelle iniziative per la parità di genere. Non esiste, al momento, una legge che contempli nello stesso momento genere e disabilità. L’essere maschio o femmina non viene considerato, anzi si tende ad assimilare la donna all’uomo, la quale risulta quindi invisibile, ombra di un altro genere che ha però esigenze differenti. Secondo il Comitato, è necessario che la prospettiva di genere venga integrata nelle politiche per la disabilità, e che la disabilità, a sua volta, venga considerata nelle politiche di genere. Si arriva poi a toccare il tema della violenza contro le donne affinché sia creata una normativa che permetta di monitorare, prevenire e combattere la violenza rivolta a donne con disabilità, all’interno e all’esterno delle mura domestiche.
Il Forum Europeo della Disabilità (EDF), l’organizzazione europea che rappresenta i milioni di disabili nell’Unione Europea, ha voluto riconoscere questa doppia discriminazione cui sono soggette le donne con disabilità, per il fatto di essere sia donne sia disabili. L’EDF ha così adottato, nel 2011, il Secondo Manifesto sui diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea. Il testo auspica la creazione delle condizioni materiali e culturali necessarie a facilitare il percorso di libertà delle donne disabili, rendendolo non meno difficoltoso di quello delle donne senza disabilità. In poche parole, vuole promuovere l’emancipazione delle donne con disabilità. Yannis Vardakastanis, Presidente dell’EDF, spiega che la discriminazione non troverà più posto in una società fondata sul rispetto dei diritti civili e umani di tutti. Ciò sarà possibile solamente integrando il genere e la disabilità all’interno di tutte le politiche.
Il Secondo Manifesto è suddiviso in diciotto aree tematiche che contemplano anche la violenza. Il Manifesto pone attenzione alla prevenzione da attuare in termini di formazione nei confronti di donne e familiari per prevenire, riconoscere e denunciare gli abusi. La formazione deve includere anche le misure giudiziarie per combattere la violenza subita. Ammette inoltre la maggiore vulnerabilità delle donne disabili davanti alla violenza, legata proprio alla loro immagine sociale carica di stereotipi. Simona Lancioni, responsabile di “Informare un’H” ha spiegato che “le donne con disabilità sono maggiormente esposte al rischio di subire una violenza sessuale perché hanno minori possibilità di difesa”
Tante volte, queste donne non riconoscono la violenza subita o non hanno modo di raccontare i fatti. Se lo fanno, il rischio è di non essere credute. Simona Lancioni ha evidenziato la necessità di strumenti idonei a rispondere alle esigenze specifiche derivanti dalla loro condizione di svantaggio. Tante volte sono gli stessi centri antiviolenza a trovarsi impreparati. Ad esempio, come può una donna affetta da sordità rivolgersi a un centro tramite contatto telefonico? È necessaria,in aggiunta, spiega il Manifesto, un’adeguata formazione di coloro impegnati nei servizi di contrasto alla violenza riguardo alla specificità delle donne con disabilità.
Il progetto RISEWISE
Nel 2016 è stato avviato RISEWISE, il cui acronimo in italiano significa “portare le donne con disabilità verso l’inclusione sociale” (RISE Women with disabilities In Social Engagement). Si tratta di un progetto, sostenuto da fondi europei che vuole creare una rete di ricerca tra associazioni, università e centri di ricerca. L’obiettivo è offrire una “vita normale” alle donne con disabilità partendo dal valore sociale di ogni persona. In sostanza, attraverso un’attività di ricerca, affronta la disabilità con un approccio interdisciplinare cercando di influenzare la politica pubblica verso le donne con disabilità. “I ricercatori avranno la possibilità di confrontarsi a livello europeo”, spiega Gianni Vercelli, professore all’Università di Genova. Inoltre, le donne che parteciperanno, saranno delle protagoniste, e non solo oggetto di studio. Si recheranno, con i ricercatori, nelle università e nelle imprese che hanno aderito al progetto, portando le proprie riflessioni su possibili miglioramenti per la loro vita.
La dottoressa Cinzia Leone, coordinatrice del progetto, ha spiegato che “il panorama della disabilità viene considerato come unico. Le donne in quanto donne sono sottoposte a differenze che le rendono diverse anche nel campo della disabilità”. La volontà è creare un modello globale, ha spiegato la dottoressa, che rispetti la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Questo modello dovrà “contemplare la disabilità e farne un punto di forza, non un ostacolo” perché le donne devono avere la possibilità di decidere riguardo la propria vita in maniera indipendente.
Alice Pagani
SocialNews, 22 febbraio 2018