A quarant’anni dal sequestro dello statista, parla il nipote Renato Moro, professore di Storia contemporanea a Roma Tre: «Resta la sua lezione del compromesso come condivisione oltre le ideologie».
Quaranta anni fa, nel suo ultimo giorno da uomo libero, il 15 marzo 1978, vigilia della storica fiducia alla Camera al governo Andreotti della solidarietà nazionale (che, non poteva saperlo, era invece la vigilia del suo tragico rapimento e dell’eccidio della sua scorta) Aldo Moro fu scoperto dal figlio Giovanni, all’una di notte, ancora immerso nella lettura di un testo di teologia: Il Dio crocefisso del protestante Jürgen Moltmann. Una circostanza indicativa, ricordata da Renato Moro – nipote dello statista e docente di storia contemporanea all’Università Roma Tre – nel corso del discorso che tenne al Quirinale, lo scorso anno, nella cerimonia del centenario.
Lei disse che «occorre “liberare” Moro dal carcere brigatista». Che cosa intendeva dire?
«Se Moro è ricordato in Italia e nel mondo è per il suo rapimento. L’immagine più diffusa resta quella con dietro la stella a 5 punte della Brigate Rosse. In parte era inevitabile. Ma oggi, a 40 dalla sua tragica fine, con tutta la necessità che ancora c’è di conoscere quel che sia davvero accaduto in quei 55 giorni, è inaccettabile che questi possano fagocitare quasi 62 anni di vita. È arrivato il momento di restituire a Moro la sua voce, la sua vita».
Che cosa è bene che i giovani ricordino di lui, oltre l’immagine con la stella a cinque punte?
«Non si può non ricordarlo come un costituente che ebbe un ruolo decisivo nel varo della Costituzione nei termini in cui è. La Repubblica fondata sul lavoro, ricordo i suoi contribuiti all’articolo 3 (il principio di uguaglianza), alla finalità rieducativa della pena, al ruolo della scuola paritaria senza oneri per lo Stato. Moro è stato relatore per la Dc sul progetto costituzionale. È stato uno dei riformisti della storia repubblicana che ha operato con più continuità e impulso. Questo aiuta forse a leggere meglio anche le lettere dalla prigionia: probabilmente percepiva che tutto il suo progetto riformista stava conoscendo uno smacco drammatico».
Che cosa ci suggerisce, questa Costituzione tanto simile alla figura di Moro, in questi giorni difficili?
«Abbiamo inventato la parola “inciucio” per dare del compromesso un’immagine deteriore. E invece questa Repubblica, questa democrazia, sono figlie di un compromesso. Per fortuna, aggiungo. L’etimologia della parola vuol dire cum promittere, promettere insieme. Che cosa c’è in politica di più alto? Ed è l’operazione che Moro realizzò nella Costituente».
Il confronto, alla base di una democrazia parlamentare, ha ceduto il passo allo scontro.
«È un paradosso della democrazia italiana, condizionata drammaticamente dalla guerra fredda e perciò priva di alternanza. Si è parlato di democrazia “consociativa”, con accezione negativa, ma in realtà c’era una serie di regole condivise fra soggetti che si consideravano avversari e non nemici. Paradossalmente, finita la guerra fredda, invece di andare verso la normalità, sono iniziate le contrapposizioni radicali, la delegittimazione dell’avversario. Mentre Moro aveva sempre coltivato il dialogo con tutti».
Con i social network, che sembrano il suo contrario, ci avrebbe avuto a che fare o ci avrebbe litigato?
«C’è una falsa mitologia sulla retorica di Moro, sui suoi discorsi difficili. Le “convergenze parallele” che gli sono attribuite, in realtà le ha inventate Eugenio Scalfari. E, rileggendo i suoi scritti, ci si accorge che era tutt’altro che astruso. Fu uomo delle complessità, non amante delle soluzioni semplici, delle scorciatoie. Al contrario di Fanfani. Ma era curiosissimo di capire quel che accadeva nella società, soprattutto fra i giovani. Ne ho un ricordo personale. Fui invitato a un convegno della Fuci e, con mia sorpresa, mi accorsi che in un palco un po’ defilato comparve mio zio. Assistette a tutto il convegno prendendo appunti, senza farsi omaggiare da nessuno. Era un professore che concepiva gli studenti come termometro della società. E anche oggi sarebbe interessato ai luoghi e alle forme con cui il mondo giovanile si esprime».
Moro uomo del Sud.
«Veniva dal profondo Sud, Taranto, Bari. Padre pugliese, ispettore scolastico ed esperto di problemi rurali; madre calabrese, insegnante, credente, vicina ai movimenti di emancipazione della donna. Fu uno dei poli- tici più attenti all’equilibrio del Paese.
Sosteneva, lo raccontò Andreatta, che l’Italia è come un castello di carta messo in piedi con cura delicatissima, che può crollare all’improvviso con un soffio di vento».
Moro credente, che attingeva alla teologia, 40 anni fa, per trarne ispirazione per il suo agire politico.
«Non ha mai fatto esibizione della sua fede, che pure era profondissima, come testimoniano la frequenza quotidiana della Santa Messa, e anche le lettere dalla prigionia. Una fede vissuta. Educato nella Fuci di Montini a un cattolicesimo adulto in grado di confrontarsi con la modernità, eppure fu uno dei politici più laici della storia repubblicana. Sebbene il cristianesimo fosse per lui un riferimento di grandi principi etici e morali, non c’è traccia di una sua decisione assunta sulla base di motivazioni confessionali. Non ha mai pensato che i cristiani avessero il privilegio della verità in politica. E fu decisivo nel configurare la Dc, a differenza della Cdu tedesca conservatrice, come un partito che interpretava i valori cristiani di uguaglianza e dignità della persona umana come terreno comune di collaborazione con il socialismo riformista».
L’immagine in cui lei lo ricorda in ferie a Terracina a leggere una pila di giornali alta fino alle ginocchia dice di un uomo dedito alle istituzioni anche in ferie. E di una voglia di confronto con tutti i punti di vista.
«I giornali sparsi erano una sua caratteristica, li ricordo sul terrazzo Terracina, ma anche nella casa di Torrita Tiberina, o a Roma. All’inizio pensavo fosse interessato a conoscere che cosa avveniva sotto traccia nel dibattito politico. Con gli anni ho capito invece che lui, leggendo i giornali in modo così intenso e impegnativo, cercava di capire quel che si muoveva nel mare profondo del Paese».
Chi era per voi quest’uomo dato alle istituzioni in servizio permanente?
«Un uomo sottratto alla famiglia. Me lo sono goduto poco. Ci si vedeva praticamente solo a Pasqua e a Natale. Ma Moro, che viene considerato un politico puro, in realtà era un uomo “prestato” alla politica. Lui si sentiva un intellettuale e professore universitario trovatosi a fare politica anche per l’invito di persone cui non si sentì di dire di no. Mio padre si stava per laureare e progettavano di aprire uno studio di avvocato insieme, Moro avrebbe fatto il penalista e mio padre il civilista. Il che significa che alla Costituente lui si percepiva come di passaggio. Ci sono poi stati vari momenti (nel ’69, poi negli anni ’70) in cui progettò di lasciare la politica. E questo suo percepirla come una scelta, un sacrificio, forse è anche alla base della fecondità del suo agire politico mai concepito come professione o attaccamento al potere».
Questo dialogo fra familiari delle vittime e ex della lotta armata è nel solco della sua visione del mondo?
«Il dialogo è in linea con la sua visione di cristiano, ma è anche coerente con quel che ha sempre insegnato come docente di diritto penale, circa la finalità rieducativa della pena, fino a considerare l’ergastolo come contradittorio con questo obiettivo. Però vediamo anche personaggi che, macchiatisi di delitti e per niente pentiti, sono considerati testimoni autorevoli di un’epoca terribile e vengono invitati tenere seminari in università, mentre dovrebbero avere almeno il buon gusto di tacere».
Angelo Picariello
Avvenire.it, 15 marzo 2018