La legge 38/2010 ha introdotto nel nostro Paese le cure palliative. A otto anni di distanza abbiamo chiesto al presidente della Società italiana di cure palliative di stilare un bilancio sui risultati ottenuti e su quelli ancora da conseguire.
La legge n. 38 del 15 marzo 2010 tutela il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore. Diritto tutelato e garantito, secondo l’art.1, “al fine di assicurare il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l’equità nell’accesso all’assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza”. A otto anni dalla legge che cosa è cambiato in Italia, si tratta di un diritto effettivamente garantito a tutti? Ne abbiamo parlato con Italo Penco, presidente della Società italiana di cure palliative (Sicp),
Quale bilancio stilare sull’attuazione della legge 38/2010?
Si tratta di una legge quadro, strutturata in modo da non lasciare nulla al caso, riconosciuta come una delle migliori in Europa. Molti passi sono stati compiuti, ma per completare lo sviluppo delle cure palliative nel nostro Paese sono ancora necessarie alcune azioni.
Quali?
Anzitutto di informazione e formazione. La legge prevedeva una campagna informativa per sensibilizzare i cittadini. A questo fine sono stati stanziati dei fondi dal 2010 al 2012, ma l’iniziativa ha avuto scarsa efficacia. Ancora oggi la maggior parte degli italiani non conosce queste cure o non sa come accedervi. Chi ne conosce l’esistenza pensa spesso che siano destinate solo ai malati terminali, identificandole esclusivamente con la terapia del dolore o la sedazione profonda – pratica quest’ultima destinata solo a pazienti in fine vita e in presenza di sintomi refrattari – mentre le cure palliative si rivolgono a tutti i malati cronici, facendosi carico della dimensione fisica, umana, psicologica e spirituale del paziente. Ovviamente lo scenario e i bisogni del fine vita sono molto più complessi. La legge distingue infatti tra cure palliative di base e specialistiche.
Lei ha accennato anche alla formazione…
Un altro nodo irrisolto è la mancanza di formazione degli operatori. Qualcosa però si sta muovendo. Sono stati attivati dei tavoli ministeriali tra dicastero della Salute e Miur per definire i programmi didattici da inserire nei corsi pre-laurea di tutte le professioni sanitarie e nelle scuole di specialità. La legge prevede la figura del medico palliativista ma nelle scuole di specializzazione non esistono programmi specifici. Nel frattempo la Conferenza permanente dei presidenti dei corsi di laurea in medicina e chirurgia ha dato delle indicazioni raccomandando di integrare i corsi con crediti formativi obbligatori nel pre-laurea. Si tratta di 25 ore, non è molto ma è un primo passo importante.
Come è la situazione circa le cure palliative sul territorio? Si può parlare anche in questo ambito di un’Italia a più velocità?
Si registra effettivamente una disomogeneità territoriale.
Occorre stimolare gli assessorati regionali della Sanità a costituire e/o completare con adeguati finanziamenti le reti regionali e locali – a domicilio, in ambulatorio, in hospice, in ospedale – di cure palliative per qualsiasi patologia evolutiva, in qualsiasi momento, per ogni età e in ogni luogo di cura come stabilito dalla legge e dai successivi atti d’intesa Stato-Regioni. Per garantire in modo equo servizi uguali a tutti i cittadini occorrerebbe però normare il relativo sistema tariffario in modo da rendere certo e omogeneo il finanziamento delle attività di cura. Per le prestazioni di queste cure esistono tariffe di rimborso differenziate che dovrebbero invece essere compatibili con l’equilibrio economico delle strutture che le erogano ai diversi livelli: domiciliare, ambulatoriale, hospice, ospedaliero. Un ulteriore passo importante sarebbe l’accreditamento delle reti con la precisa definizione dei criteri loro richiesti. Nel documento programmatico del ministro della Salute per il 2018 c’è questo obiettivo.
Il numero degli hospice è cresciuto negli ultimi anni in maniera esponenziale…
Sì, ma è avvenuto a macchia di leopardo poiché si è spesso trattato di riconversioni di strutture sanitarie preesistenti.
Alcuni territori sono rimasti scoperti perché è mancata una politica di programmazione e attuazione in zone in cui ce ne sarebbe stato bisogno.
Tuttavia, laddove possibile, andrebbe implementato il servizio domiciliare che è il più idoneo alle esigenze del malato. In questo ambito un ruolo centrale lo svolge il volontariato. E’ pertanto necessaria la rapida approvazione del decreto attuativo riguardante la formazione dei volontari in questo ambito specifico. La legge prevede infatti al riguardo un percorso formativo omogeneo su tutto il territorio nazionale. Altrettanto importante l’accreditamento istituzionale delle strutture del Terzo settore nel rispetto degli standard di qualità delle cure erogate.
Qual è il ruolo del medico di famiglia?
E’ il regista nelle cure palliative di base, l’anello di congiunzione in grado di intercettare il malato al momento giusto e di capire se e quando debba essere inviato ad un centro di cure più specialistiche. Naturalmente anche questa figura deve possedere le competenze necessarie.
Negli ultimi anni sono aumentati i minori affetti da patologie inguaribili. I pediatri sono adeguatamente formati?
Questo è un tasto doloroso. In Italia su 100mila residenti con meno di 15 anni, 20 bambini muoiono avendo bisogno di cure palliative, ma mancano servizi dedicati. Qualche cosa si sta muovendo a Bologna, Genova e Milano; occorre tenere conto del fatto che i bisogni di un bambino sono diversi da quelli dell’adulto e richiedono un approccio differente. Inoltre, mentre i pazienti adulti bisognosi di cure palliative sono al 40% oncologici, questa malattia si riscontra solo nel 20% dei piccoli dove prevalgono invece le patologie genetiche. Come Sicp stiamo investendo risorse per sensibilizzare la politica e gli assessorati alla Salute affinché diano risposta ai bisogni di questa fascia di popolazione.
Giovanna Pasqualin Traversa
SIR, 15 marzo 2018