Senza la nevrosi strumentale delle riforme istituzionali, senza doversi arrabattare di riforma elettorale in riforma elettorale, si guardi alle cose da fare. E si chiamino le cose con il loro nome. Potrà venire così anche l’ispirazione per modellare equilibri e formule nuove per tempi nuovi. Abbiamo bisogno allora di prospettiva, di tempi congrui, per affrontare alcune priorità di cornice.
Qualche passaggio duro, ma nessuna sorpresa dal primo atto della legislatura, concluso con l’elezione di Maria Elisabetta Casellati e Roberto Fico al vertice di Senato e Camera. Per la prima volta dal 1994 i due presidenti non appartengono allo stesso schieramento. È un ulteriore segno di discontinuità, dopo i risultati elettorali del 4 marzo. L’esito peraltro era obbligato dato che gli elettori hanno (saggiamente) decretato che nessuno dei tre schieramenti in lizza avesse la maggioranza assoluta dei seggi. E non si dica che è “colpa” del sistema elettorale: ogni sistema senza premio avrebbe dato lo stesso risultato. D’altra parte questo è il Paese, diviso, perplesso, adirato, ma anche in attesa di qualcosa di nuovo e di serio: dunque è bene che, soprattutto in una fase di transizione, il Parlamento lo rappresenti. Un Parlamento in cui peraltro tutti gli schieramenti siano reciprocamente legittimati, come, anche se con la durezza che la politica sempre accompagna, è capitato in questi giorni convulsi. E di qui bisogna ripartire per il secondo e più complicato passaggio di avvio della XVIII Legislatura, ovvero la formazione di un governo. Per cui il Capo dello Stato giustamente si è preso tempo. Occorre che le forze politiche si prendano reciprocamente le misure e si chiariscano sulle prospettive.
Prospettive della legislatura, ovviamente, ma anche prospettive per l’Italia, per l’Italia europea. In realtà ci sono decisioni strategiche da prendere, decisioni di indirizzo che certo in parte sfuggono alla politica, ma che hanno comunque bisogno di una direzione politica. Per cui continuare ad oltranza la campagna elettorale, anche se in astratto potrebbe essere possibile, in fin dei conti non può giovare a nessuno. Né tantomeno agli elettori, che si sono già pronunciati con chiarezza.
È un tempo nuovo, si è detto il 4 marzo, e bisogna cominciare a strutturarlo, questo cambiamento, di cui tutti tanto, e spesso troppo, parlano.
Allora, senza la nevrosi strumentale delle riforme istituzionali, senza doversi arrabattare di riforma elettorale in riforma elettorale, si guardi alle cose da fare. E si chiamino le cose con il loro nome. Potrà venire così anche l’ispirazione per modellare equilibri e formule nuove per tempi nuovi.
Abbiamo bisogno allora di prospettiva, di tempi congrui, per affrontare alcune priorità di cornice, che il cardinal Bassetti ha sintetizzato in modo molto efficace: “Ci sono una società da pacificare, una speranza da ricostruire, un Paese da ricucire”. Tre questioni che disegnano, è sempre una parola del presidente della Cei, un orizzonte, che deve essere di democrazia viva, forte, “fondata sul lavoro”.
È quello di cui abbiamo bisogno, se è vero che l’Italia sembra abbia ripreso a crescere, ma lo fa a velocità assai minore degli altri partner (che sono anche concorrenti) nell’eurozona. Prendiamoci allora tutto il tempo necessario, ma, come ha ribadito Bassetti, “si governi, con la pazienza ostinata e sagace del contadino, nell’interesse del bene comune e dei territori”.
Francesco Bonini
SIR, 26 marzo 2018