Due libri della scrittrice sulla necessità per credenti e no di costruire un nuovo umanesimo ispirato dal cristianesimo: per sconfiggere tutti gli estremismi religiosi.
Non cessa di stupirci, Julia Kristeva, per la sua libertà di pensiero e per la capacità di ricondurre a unità le istanze di credenti e non credenti dinanzi alle sfide del mondo contemporaneo. Lo fa con due recenti volumi tradotti in Italia, La notte della giustizia (a cura di Cristiana Dobner; Edb, pagine 64, euro 7,00) e Simone de Beauvoir. La rivoluzione del femminile (Donzelli, pagine 144, euro 19,00). Due libretti di stampo assai diverso ma accomunati dal desiderio di rifondazione dell’umanesimo in Occidente, un umanesimo che recuperi le verità più profonde del cristianesimo e dell’illuminismo.
Del primo volume, un discorso tenuto all’École nationale de la Magistrature a Bordeaux nel 2015 (un estratto ne è già stato pubblicato su queste pagine), è centrale l’interrogativo che si pone: giudicare è perdonare? Il suo intervento, rivolto agli aspiranti magistrati d’Oltralpe, si inerpica su questioni profonde esplorate soprattutto dai teologi. Senza accontentarsi del verdetto di Jankélévitch secondo cui «il perdono è morto nei campi della morte», Kristeva spiega come si rende possibile nella cultura ebraica l’atto del perdono, che contempla la richiesta del perdono di chi è stato offeso ma anche l’accettazione di essa. Solo se la ferita viene richiusa con una parola che la plachi, allora anche Dio può perdonare. Il cristianesimo compie un passo avanti introducendo l’amore vicendevole: «È innanzitutto perché gli uomini sono capaci di perdonarsi che Dio, alla fine, li perdonerà». Davanti al male estremo che si riaffaccia oggi con il terrorismo e le nuove guerre, la filosofa si definisce «una pessimista energica» e invita a non demordere, prendendo esempio da Pascal, da quel punto fragile che l’autore dei Pensieri ha chiamato «un movimento perpetuo». E si chiede «se l’etica che oggi ci manca non sia precisamente questo “movimento perpetuo”, verso il segreto di rallegrarsi del bene senza scandalizzarsi del male». Come lei stesso ha scritto, le frasi di due autori hanno segnato il suo itinerario intellettuale. La prima di sant’Agostino: «Il viaggio è la sola patria», la seconda di La Fontaine: «Diversità, ecco il mio motto».
Slogan efficaci che contrassegnano anche il suo saggio sulla compagna di Sartre. Che rimane certo la protagonista di una rivoluzione antropologica nel senso del femminismo e di un ateismo radicale, ma al contempo esprime la volontà di un’autotrascendenza: «Il suo concetto esistenzialista di libertà implica non solo il nonacconsentire, ma altresì il vivere superando se stessi». E la sua critica all’universo maschile si rifà esplicitamente a figure religiose come Teresa d’Ávila e Kierkegaard, oltre a Colette e Freud. Il cruccio di Julia Kristeva è il destino dell’Europa, la necessità di rifondare l’umanesimo che ne costituisce l’humus, quell’umanesimo che per lei è sempre stato simboleggiato dall’illuminismo ma che ora si trova sotto scacco a causa delle sfide del nuovo millennio: la subordinazione della cultura rispetto all’economia secondo il modello americano prevalente, l’incalzare dei nuovi fanatismi religiosi che sfociano nel terrorismo, le frontiere delle neuroscienze e delle biotecnologie che aprono la via a scenari meravigliosi ma pure a possibili incubi. Se l’illuminismo ha “spezzato il filo” con la tradizione religiosa (per usare un’espressione di Tocqueville e Arendt), Kristeva, che qualcuno ha chiamato “atea cristiana”, ammette che c’è bisogno del cattolicesimo, della sua etica e della sua estetica. Inutile perseverare con la cultura del piagnisteo. La memoria viva dell’Europa nelle sue diverse componenti (greco-romana, ebraica, da duemila anni cristiana, poi umanistica con i suoi accenti di ribellione da duecento anni, senza dimenticare la presenza araba e musulmana), è un multiverso linguistico e culturale ancora vivo.
Contro i nuovi fanatismi e le nuove intolleranze occorre perciò un’alleanza tra una fede pensata e un pensiero aperto. Quando nel 2011 fu invitata da Benedetto XVI alla Giornata interreligiosa per la pace ad Assisi come rappresentante dei non credenti, lei stessa indicò dieci punti per una rifondazione dell’umanesimo. E che la scrittrice faccia rientrare in questo progetto il “bisogno di credere” e un cristianesimo pensoso, ce lo dice pure il confronto che da anni ha avviato sulla questione dell’handicap con Jean Vanier, confronto nato a partire dalla disabilità del figlio David. Umilmente Kristeva non si arruola nelle fila «di quei genitori di figli disabili che proclamano di vivere la gioia e la grazia». Più semplicemente dice di aver compreso il senso del «prendersi cura», urgenza pedagogica, valore primario per un’etica laica.
Roberto Righetto
Avvenire.it 20 marzo 2018