La morte del direttore d’orchestra venezuelano che attraverso la musica ha cambiato l’esistenza di milioni.
«Fin dall’inizio, il nostro lavoro s’è ispirato al principio secondo cui l’educazione artistica non è un bene d’élite, deve bensì consolidarsi come eminente diritto sociale dei nostri popoli». Era il 24 ottobre 2008 quando, nel ricevere il premio Príncipe de Asturias, José Antonio Abreu sintetizzò così la missione a cui aveva dedicato gli ultimi decenni della sua vita. La musica, l’arte, la bellezza – ne era profondamente convinto – sono diritti universali degli esseri umani. Tutti hanno diritto a goderne senza discriminazioni di genere, etnia o condizioni sociali. Non sorprende, dunque, che quando questo direttore d’orchestra brillante convinse otto studenti del conservatorio statale – poi aumentati a undici – a portare la loro arte in un quartiere popolare di Caracas, provando quotidianamente in un garage, i colleghi l’avessero soprannominato «il don Chisciotte della musica».
Era la metà del 1974 e “il Sistema” era ancora un sogno. Sarebbe diventato realtà embrionale, con la costituzione formale, l’anno successivo. Quarantatrè anni dopo, esso è ormai una rete di 1.500 orchestre (i migliori confluiscono nelle file dell’Orquesta Sinfónica Simón Bolívar, vero fiore all’occhiello del “Sistema”), e cori giovanili, a cui partecipano quasi un milione di ragazzi e diecimila insegnanti. I tre quarti vengono dai “ ranchos”, come nel Paese vengono chiamate le baraccopoli. Per costoro, lo strumento o la voce sono stati il loro mezzo di riscatto, individuale e sociale. È questa l’eredità che, prima di spegnersi, nella notte tra sabato e domenica, all’età di 78 anni, il suo creatore ha lasciato al Venezuela. E al mondo: “il Sistema” ha oltrepassato le frontiere, venendo replicato e riadattato in una cinquantina di Paesi, tra cui anche l’Italia. A lasciare stupefatti, più ancora, è stata la capacità del “metodo Abreu” di superare le frontiere ideologiche che hanno intrappolato Caracas in una crisi feroce.
“Il Sistema” ha attraversato indenne il difficile passaggio di consegne fra i due nemici giurati Carlos Andrés Pérez e Hugo Chávez. Abreu – che era stato ministro della Cultura nel secondo esecutivo di Pérez, fra il 1989 e il 1994 – è riuscito a costruire rapporti cordiali con quest’ultimo. E Chávez – fatto poco frequente dato il suo temperamento – ha continuato ad appoggiarne l’operato. Tanto che il Maestro ha accompagnato con le sue esibizioni gli atti ufficiali del Bicentenario del 2010. Incassando, quella volta, le critiche feroci dell’opposizione. Con la “successione” di Nicolás Maduro, le relazioni si sono fatte più formali. Più che altro a causa della malattia di Abreu: la salute malferma l’ha portato progressivamente a ritirarsi dalla scena pubblica, sempre più convulsa. A prendere posizione – fortemente critica – contro il governo Maduro, durante le proteste della scorsa primavera-estate, è stato il più celebre degli allievi di Abreu: il direttore della Los Angeles Philarmonic, Gustavo Dudamel, vera bandiera internazionale dei frutti del “Sistema”.
Eppure, all’indomani della morte del maestro, per un momento, gli scontri feroci, nuovi e vecchi, tra venezuelani di diverso orientamento sono parsi ricomporsi, nel commemorare questo concittadino visionario. «Un grande venezuelano», l’ha definito Maduro. E il governo ha prontamente dichiarato tre giorni di lutto nazionale. L’opposizione non è stata da meno. I suoi leader – negli ultimi tempi sempre più divisi – si sono uniti in un coro di elogi per lo scomparso. Il necrologio più efficace, però, forse, è stato quello scritto dallo stesso Dudamel, in una toccante lettera: «José Antonio Abreu, come nessun altro ai nostri tempi, ci ha insegnato che l’ispirazione e la bellezza trasformano irreversibilmente lo spirito di un bimbo, rendendolo un essere umano più pieno, più completo, più felice e, perciò, un cittadino migliore». Aiutare i venezuelani, soprattutto coloro che vivevano e vivono ai “margini” della nazione, a sentirsi persone, e dunque, cittadini degni, è stato il sogno a cui Abreu ha dedicato l’intera esistenza. Nel riflettere sul suo legato, il Paese può trovare una bussola per provare a uscire dal pantano. Svelare il potere trasformatore e liberatore della musica è stato, dopotutto, il grande insegnamento del maestro.
Lucia Capuzzi
Avvenire.it, ì 27 marzo 2018