La malattia, la decisione di farla finita, l’incontro coi radicali e con Marco Cappato. Così dj Fabo è arrivato in Svizzera e, Dopo il suo suicidio, si è aperto il processo di Milano.
Umanamente drammatico, giuridicamente intricatissimo. Per il diritto il caso di Fabiano Antoniani inizia a esistere nel febbraio 2017, quando il 39enne – conosciuto come dj Fabo – divenuto cieco e tetraplegico a seguito di un incidente stradale muore volontariamente in Svizzera in una struttura che pratica il suicidio assistito. Con lui, assieme alla madre e alla fidanzata, c’è anche Marco Cappato, il tesoriere dell’associazione radicale Luca Coscioni. È stato lui a esaudire gli appelli del giovane, che poco dopo il sinistro gravemente invalidante – avvenuto nel giugno 2014 – aveva più volte chiesto di poter morire. Antoniani si era rivolto anche al presidente della Repubblica. D’altronde, il nostro ordinamento vietava e tuttora non consente – nonostante l’intervenuta legge sul cosiddetto testamentobiologico – sia l’eutanasia sia il suicidio assistito. Un dato giuridico contro il quale c’è chi come Cappato si batte da anni, prestandosi ad aiutare concretamente quanti desiderano farla finita a recarsi in Svizzera.
Gli appelli di Antoniani vengono raccolti dal dirigente radicale, da cui il dj viene a conoscere l’esistenza delle strutture svizzere di Dignitas e aiutato a svolgere tutte le pratiche per poter dare corso alla propria morte come e quando desiderava. Ma in Italia aiutare una persona a togliersi la vita è reato, e Cappato lo sapeva. Per questo, una volta deceduto Antoniani, si autodenuncia provocatoriamente presso i Carabinieri di Milano. Sulla notizia di reato iniziano a indagare i pm Tiziana Siciliano e Sara Arduini, rappresentanti della pubblica accusa. I due magistrati però si convincono che Cappato non abbia commesso alcun reato, perché la sua condotta – pur se punibile dall’articolo 580 del Codice penale – a loro avviso non solo non avrebbe leso dj Fabo ma, al contrario, l’avrebbe aiutato a morire con dignità mettendo fine a una vita segnata da una malattia irreversibile – pur non terminale – e a una sofferenza divenuta intollerabile.
Così, su queste premesse, la Procura chiede l’archiviazione del procedimento. Non la pensa però così il Giudice per le indagini preliminari, Luigi Gargiulo, che ordina l’imputazione coatta. Il processo giunge quindi in Corte d’Assise, sempre a Milano, dove di fatto nessuno sostiene l’accusa contro Cappato: non le pm, che ripropongono le stesse tesi con le quali avevano tentato di ottenere l’archiviazione; non la difesa dell’imputato, com’è naturale.
Ed è qui che la Corte d’assise di Milano si trova innanzi a due richieste, formulate pressoché congiuntamente da accusa e difesa: in prima istanza, assolvere Cappato per non aver violato la norma; in subordine, rimettere gli atti del procedimento alla Consulta. Con un obiettivo preciso: arrivare a una pronuncia che dichiari l’incostituzionalità del reato di aiuto al suicidio quando a chiedere la morte sia una persona gravemente malata. Proprio questa seconda prospettiva abbraccia la Corte milanese, sul doppio presupposto che Cappato ha sì violato l’articolo 580 del Codice penale ma che tale norma non sarebbe più compatibile con la nostra Carta fondamentale. A difendere la legge nella sua attuale formulazione non può che intervenire l’Avvocatura di Stato su incarico del governo, cosa che accade di regola. Il termine per il deposito della memoria scadeva oggi, giorno in cui Palazzo Chigi si è espresso ufficialmente.
Marcello Palmieri
Avvenire.it, 3 aprile 2018