La studentessa cristiana, 22 anni e il cuore pieno d’amore e di speranza, stroncata il 2 aprile 2015 con altri 147 giovani nella strage all’università di Garissa, è il simbolo dell’eroismo dei tanti martiri che ancora oggi, nel XXI secolo, pagano con il sangue la propria fedeltà a Cristo. Di quella Chiesa “dei martiri” che è nel cuore di Papa Francesco.
Sono passati tre anni da quel 2 aprile 2015 che vide la morte di 148 persone, per lo più studenti di fede cristiana, nel campus universitario di Garissa, in Kenya, per mano del gruppo islamista di Al-Shabab, la cellula somala di Al Qaida. A quella tragedia la Fondazione Santina Onlus dedica un volumetto intitolato “Janet – La potenza del suo martirio” (ed. Velar Marina).
La pubblicazione, cha fa parte della collana #VoltiDiSperanza, riporta in copertina il sorriso luminoso della protagonista, Janet Akinyi, studentessa ventiduenne uccisa durante l’attentato, e, scrive nella presentazione Riccardo Nisoli, giornalista del “Corriere della Sera”, “vuol essere la testimonianza di una fede di frontiera, combattuta giorno per giorno, non con la tracotanza delle armi ma con la forza della Croce”.
Nel volumetto viene raccontato il viaggio avventuroso della Fondazione in Kenya, dal 29 aprile al 9 maggio 2016, un anno dopo la strage, vengono restituiti, prosegue Nisoli, “i ricordi drammatici di chi ha visto l’orrore di quella mattanza”. E ci viene regalata una storia: gli ultimi istanti della breve vita di Janet Akinyi, 22 anni, tante speranze e un amore. “È al suo ragazzo che indirizza l’ultimo sms, appassionato e commovente. Come la potenza del suo martirio”.
“Viaggiare in Africa – viene raccontato – significa pullman scassatissimi e affollatissimi” oppure “jeep vecchie, senza confort, che facilmente si possono surriscaldare”. E strade polverose e piene di buche da percorrere sotto un sole implacabile a 42 gradi. Obiettivo del viaggio l’inaugurazione, il 2 maggio 2016, tredici mesi dopo la strage, di una chiesetta realizzata a tempo di record dalla Fondazione Santina Onlus per onorare i martiri.Color verde pistacchio e in stile latinoamericano, con un mattone della Porta Santa della basilica di San Pietro incastonato negli stipiti dell’ingresso, la chiesetta accoglie la cerimonia alla presenza di un centinaio di cristiani del luogo – uomini, donne e bambini – vestiti a festa ed esultanti.
La Fondazione racconta anche il pellegrinaggio doloroso nell’università, nell’aula dove sono stati giustiziati 22 studenti. La lavagna ha ancora le scritte presenti “al momento in cui il demonio infieriva crudelmente su di loro – si legge – sui poveri 22 ragazzi con il cranio spappolato da colpi di fucile”. E qui don Luigi Ginami, sacerdote della diocesi di Bergamo e presidente della Fondazione (intitolata alla madre e impegnata in diversi progetti di carità), inizia la Messa con gli occhi pieni di lacrime chiedendosi: “Sarei capace di tanto? Di dare la vita, il sangue e la mia carne per Gesù?”.
Finita la Messa, dall’aula al cortile del dormitorio teatro della strage di altri 98 giovani, morti sgozzati o con il cranio spappolato dai proiettili ad espansione usati dai terroristi. Ad accompagnare i visitatori un giovane professore, Robert, al quale chiedono “un volto da mostrare al mondo”, il volto di uno di questi giovani, simbolo per tutti gli altri. Foto il professore non ne ha, ma consegna a don Ginami un pezzettino di carta sul quale ha trascritto l’ultimo Sms inviato da Janet Akinyi al suo ragazzo: “Amore, stanno venendo per noi, siamo i prossimi, dove è l’esercito che ci aiuti stiamo per essere uccisi. Se non dovessimo più vederci amore sappi che ti amo tanto. Ciao e prega per noi… Dio ci aiuti”.
“Questa ragazzina fragile e spaventata – scrive – è un gigante” che ha saputo “firmare la sua vita con il nome di Dio”.
Dedicato al Kenya è anche “Joe – Cicatrici d’amore”, sempre per i tipi di Velar Marina, diario del viaggio di solidarietà dalla Fondazione (16 – 23 febbraio 2017) al Dadaab Refugee Camp, enorme campo profughi che circonda le città di Hagadera, Dagahaley e Kambios, gestito dall’organizzazione umanitaria Care per conto dell’Unhcr. Joe è il padre cappuccino Joseph D’Alessandro, oggi vescovo di Garissa, il 18 ottobre 1993 missionario derubato di tutto, ferito all’anca da quattro banditi che avevano cercato di ucciderlo e abbandonato sotto un albero. Ed è proprio lui a raccontare l’esperienza.
Colpito da una pallottola ad espansione, “quando esplose nella mia gamba tutti i frammenti entrarono nel mio fianco destro e sentii anche alcune parti più piccole nelle budella – ed in effetti alcune schegge sono ancora lì”. Un lungo e doloroso calvario che lo portò fino a Londra dove venne operato e rimase tre mesi immobile a letto con la faccia rivolta verso l’alto, “senza essere in grado di scendere o girarmi sul fianco”. E il letto divenne un amico: “Lo immaginavo come se fosse il palmo della mano di Dio, che mi sorreggeva con molta cura e amore”. “Quest’uomo – scrive Ginami – ha amato così tanto questa terra da dare il suo sangue. L’assetata terra di Africa ha bevuto con avidità il suo sangue e lui così è divenuto africano e l’ Africa è divenuta più cristiana”. “Dio continua ad amare anche chi lo rifiuta”, annota mons. Dario Edoardo Viganò nella prefazione del volumetto, richiamando parole di Papa Francesco. “Nessuna mano sporca può impedire che Dio ponga in quella mano la Vita che desidera regalarci. A questo amore – conclude Viganò -, ha consegnato la propria vita il vescovo Joe, quando venne aggredito, gli spararono e, così, ebbe inizio la sua ‘via crucis’ dalla quale è germogliato il perdono per coloro che gli hanno fatto del male”.
Giovanna Pasqualin Traversa
SIR, 3 aprile 2018