Incontri nel centro di transito comunale in stazione, il passaggio a nordovest. Grazie all’attività informativa i flussi sono in calo.
L’ultima stazione italiana prima della Francia è oggi il confine della solidarietà. Che si è fermata qui. Se lo scalo ferroviario di Bardonecchia è teatro dei respingimenti dei doganieri francesi – il più famoso quello di Beauty, di cui ieri si sono celebrati i funerali a Torino – o dei loro atti di forza oltreconfine, istituzioni pubbliche italiane e associazioni di volontariato hanno risposto all’irrigidimento transalpino attivando un punto di supporto a migranti in transito che in due mesi ha censito un migliaio di passaggi. La strategia del Comune, con la regia della prefettura torinese e in accordo con altri sindaci dall’Alta Val di Susa, è dissuadere nel rispetto della legalità. E funziona, anche se il flusso cala e non si arresta.
Sul piazzale della stazione della località turistica cara ai torinesi e a Giolitti, i migranti si mescolano a sciatori ed escursionisti nella sala di attesa e nel bar, dove sopra la macchina del caffè c’è il poster della nazionale campione del mondo del 2006, memoria della finale vinta contro i cugini. Accanto c’è il locale dato in comodato dal municipio all’ong torinese Rainbow4Africa, che ogni sera garantisce la presenza di un medico volontario, e dove opera 24 ore al giorno un mediatore culturale della rete dei comuni solidali, un africano arrivato dalle rotte del deserto in Libia e dal mare. Ha dunque la credibilità per spiegare che si rischia la vita a camminare nella neve e come finisce un richiedente asilo se viene fermato e si scopre che ha chiesto protezione in un’altra nazione europea: ritrovarsi sans papier buttando via tutto. Lo sportello legale è curato dall’Asgi, le associazioni di volontariato tra cui la Caritas parrocchiale, la Croce Rossa, gli scout di “Liberamente insieme” offrono un cambio d’abito o scarponcini, una fetta di dolce o di pizza a chi decide se ripartire per la Francia a piedi o in treno, ripiegare su Oulx per provare ad attraversare a Briançon da Claviere o tornare a Torino, dove nasce questo flusso iniziato l’estate scorsa che cerca disperatamente il passaggio a nordovest.
Ed è in questo crocevia verso la fortezza Europa che riporto nel tardo pomeriggio Karim e Ahmed, 29 e 17 anni, un tunisino e un camerunense incontrati a Pian del Colle, fuori dal villaggio di Melezet, decisi a salire dalla Valle Stretta il sentiero innevato che porta in cima al Colle della Scala. È il mitico passaggio a nordovest, sull’altro versante l’agognata Francia. Ma arrivarci con la pista bianca è impossibile, il pericolo valanghe altissimo, come indicano i cartelli all’imbocco del sentiero. E se si passa, le probabilità di venire fermati dagli implacabili gendarmi francesi sono elevate. I due sono già stati respinti a Ventimiglia, vorrebbero riprovarci. «Quanto ci vuole per arrivare?», domandano frustrati. Non hanno scarponi impermeabilizzati e, anche se sarà una notte stellata e non gelida, basta il sentiero innevato a dissuaderli dalla traversata.
«Arrivano in tanti per provarci – spiega Roland, il mediatore camerunense che ha aiutato Beauty–. Hanno sentito parlare di questo posto utile per passare la frontiera a piedi, in treno o con il bus. C’è gente che si trova in tre mesi dal deserto ai ghiacciai, bisogna farli ragionare. Le nazionalità? Africani francofoni, nigeriani, maghrebini. Ci sono i richiedenti asilo stufi di aspettare, diniegati che hanno fatto ricorso, regolari e irregolari. In Francia pochi vogliono restarci, i più sono di passaggio. Molti finiscono per tornare a Torino». Karim e Mohamed hanno fatto ad esempio dietrofront dopo aver cambiato le scarpe fradice. Ogni notte in media 7-8 persone arrivano con l’ultimo treno dal capoluogo piemontese. Dormono stringendosi nel piccolo centro, che a malapena ha 20 posti letto, per non stare all’aperto.
«Incontriamo sempre più famiglie con bambini – racconta Paolo Narcisi, presidente di Rainbow – , mentre uno su 10 è un minore straniero non accompagnato. Offriamo assistenza medica serale, le associazioni un aiuto umanitario perché da Oltralpe li rimandano a Bardonecchia senza neppure un giubbotto o una coperta . Con la gente del posto nessun problema, però vorrei chiedere agli italiani di smettere di intasarci la posta con minacce e insulti. Siamo volontari, ci hanno chiamato i sindaci, è più difficile aiutare qui che non in Africa».
«Grazie al centro il flusso è calato – aggiunge il sindaco Francesco Avanto – rispetto a dicembre e gennaio. La dissuasione e l’informazione sono fondamentali per salvare vite. Era il nostro l’obiettivo quando siamo partiti con la prefettura. Doveva essere un intervento di poche settimane, andiamo avanti finché ci sarà il flusso, anche in estate». Imminente la creazione di un centro di micro accoglienza anche a Oulx per dissuadere chi vuole passare da Claviere.
«La differenza con la Francia la fa il prefetto – aggiunge l’assessore ai servizi sociali della celebre località di villeggiatura, Piera Marchello –. Quello di Torino sostiene il centro pilota e riammette sotto la sua responsabilità i richiedenti asilo che vanno nel centro di Settimo Torinese. A Briançon comune e volontari sono soli. I cittadini sostengono l’intervento solidale. Importante il sostegno della parrocchia».
Don Franco Tonda, parroco dal 1992, spiega come è stato sensibilizzato il tessuto solidale di cittadini e villeggianti che portano alla Caritas indumenti e cibo di continuo.
«Nel 2014 arrivarono 14 profughi nigeriani ospitati da una coop. Giocavano a calcio sul nostro campo, li abbiamo conosciuti. Bravi ragazzi, sono venuti a messa, partecipavano, alcuni hanno voluto battezzarsi e hanno continuato a frequentare anche quando si sono trasferiti a Susa. Quattro sono rimasti, hanno trovato lavoro. Altri sono rimasti in contatto. La conoscenza ha generato solidarietà. Qui ci sono 300 rumeni e una piccola comunità albanese. Non siamo chiusi anche se non tutti condividono l’apertura. Ma aiutiamo anche famiglie italiane in difficoltà».
E le volontarie Teresa Gancin e Giovanna Davi sono due colonne, supporto morale e materiale anche alla stazione.
«Ci hanno coinvolto le altre associazioni. Cercavano un paio di scarponi numero 46 – racconta Giovanna –. Li aveva da due anni don Franco in sagrestia. Da lì abbiamo cominciato a collaborare. Lo scorso autunno quando passavano i migranti diretti al Colle della Scala la gente lasciava fuori casa giubbotti, maglioni e scarpe per i ragazzi in maglietta. Come a Lampedusa». E come l’isola quest’ultimo lembo d’Italia oggi ha il compito di ricordare alla coscienza impaurita dell’Ue cosa sia la solidarietà.
Paolo Lambruschi
Avvenire.it, 7 aprile 2018