Ragione e fede, la sfida dell’Illuminismo che merita di essere raccolta

By 22 Aprile 2018Cultura

Contrariamente a quello che si pensa abitualmente, l’Illuminismo è un esito della storia cristiana. Paradossale, se si pensa che l’ideologia illuminista si è affermata spesso come un’opposizione radicale nei confronti della tradizione cristiana e del principio di autorità della religione nell’Europa moderna tra il XVII e il XVIII secolo. Un periodo segnato, da un lato, dalle guerre di religione (o meglio di politica religiosa, già all’indomani della Riforma luterana), scoppiate soprattutto tra cattolici e protestanti; e dall’altro lato, dalla lotta per il controllo e la moralizzazione della vita politica da parte delle Chiese. Con la conseguente ricerca di una possibile “tolleranza” che salvasse, grazie all’uso sensato della ragione e della conoscenza, dall’abuso di una legislazione morale di impronta religiosa imposta a tutta la società.
Eppure questo fenomeno non è risolvibile solo come una contrapposizione frontale e teorizzata tra Illuminismo e cristianesimo (come nelle punte estreme degli idéologues francesi, à la Voltaire o Diderot, tra materialismo, scetticismo e “deismo”). In realtà, in molti altri casi l’Illuminismo europeo si concepisce piuttosto come il compimento o l'”inveramento” della tradizione cristiana. Ma — ecco il punto — intendendo tale inveramento come un riassorbimento dell’evento storico originario nella purezza della ragione morale.
L’esito di questa operazione interpretativa non deve però farci dare per scontata l’origine o l’imprinting cristiano dell’Illuminismo. È infatti per delle motivazioni prettamente storiche, e non astrattamente razionali, che l’Illuminismo ha potuto concepire i suoi principi fondamentali. Penso all’esaltazione della libertà e della ragione come costitutivi dell’individuo, o al diritto all’uguaglianza, o all’idea della storia come il progresso verso un fine compiutamente umano e razionale del mondo. Resta illuminante su questo tema il giudizio del cardinale Ratzinger in L’Europa di Benedetto e la crisi delle culture (Cantagalli, lev-Cantagalli, Roma-Siena 2005, pp. 42 ss.), su cui ha giustamente richiamato l’attenzione, come contributo essenziale per capire il momento presente, Julián Carron nei primi due capitoli del suo volume La bellezza disarmata (Rizzoli, Milano 2015).
Si tratta di un fenomeno per certi versi analogo a quello che si sta manifestando nella nostra epoca: dall’avvenimento dell’incarnazione deriva un nuovo assetto culturale, ma a un certo punto questo assetto culturale si traduce paradossalmente in un’estinzione della storia che l’ha generato.
Pensiamo a quello che scrive il grande Kant nella sua Risposta alla domanda: cos’è Illuminismo? (1784). Esso consiste nell’«uscita dell’uomo dalla minorità di cui è egli stesso colpevole»: come se uno restasse minorenne (e in fondo “minorato”) per sua scelta. E questo non dipende da «una mancanza di intelletto», ma dalla «mancanza di decisione e di coraggio nel servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro» (in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 45).
La cosa davvero interessante qui è l’istanza kantiana di un uso spregiudicato e coraggioso della ragione umana, che non si basi più sulla dipendenza (in senso servile) da un’autorità fuori dall’esperienza, ma decida di scegliere quello che risulta evidente alla ragione. «È così comodo essere minorenni! — continua ironicamente Kant —. Se ho un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che sceglie la dieta per me, ecc., non ho certo bisogno di darmi da fare io stesso. Non ho bisogno di pensare, se soltanto posso pagare: altri già si incaricheranno per me di questa fastidiosa occupazione» (ivi). Perciò è così difficile per un uomo liberarsi «da solo» da questa minorità. Lo potrebbe solo puntando tutto sulla sua libertà. Ma da dove parte questa libertà? Chi o cosa la muove a scegliere coraggiosamente di pensare con la propria testa? Qui è il punto critico di svolta. Che il singolo ci riesca è difficile; «ma che un pubblico [Publikum] illumini sé stesso è invece possibile; anzi, se solo gli si lascia la libertà di farlo, è pressoché inevitabile» (p. 46).
È solo grazie alla discussione pubblica — non legata a pregiudizi dottrinali o confessionali — che può avvenire questa liberazione. Essa sarà tutta, inevitabilmente, culturale ed etica. Gli uomini realizzati saranno quelli (all’inizio pochi) che «pensano liberamente», e che scrollatisi di dosso il giogo della minorità, diffonderanno tra gli altri uomini la «stima razionale del valore proprio di ogni uomo e della sua vocazione a pensare autonomamente» (ivi). Per questo il motto dell’illuminista, cioè di un uomo dalla ragione liberata è il sapere aude!, «abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto!» (p. 45).
Ma come era sorta, nella sua origine cristiana, questa istanza? Dalla scoperta che la ragione si libera solo quando l’uomo riconosce nella sua esperienza, nella storia della sua esistenza (pensiamo ad Agostino), di non essere riducibile solo a sé stesso — il che lo richiuderebbe nel confine delle sue sole capacità —, ma di essere rapporto con un Altro, che lascia nell’uomo una traccia più grande di lui. L’intelligenza può essere usata in proprio, perché trova in sé — come il suo “proprio” — il criterio infinito della conoscenza e della libertà. Solo che è nell’incontro con l’Altro che quella traccia originaria è provocata ad emergere.
Kant ritiene ancora, per tradizione, che queste nostre facoltà rientrino nell’ordine divino della creazione. Ma ciò che all’origine era un rapporto “longitudinale” diretto con la sua fonte, diventa ora una competenza “latitudinale”, cioè non più la storia di un rapporto reale, ma una universalità congenita a priori nella ragione stessa. L’origine diventa una pura funzione immanente alla ragione. Perciò ne La religione entro i limiti della sola ragione (1793), Kant arriverà a dire che «non è essenziale, né di conseguenza necessario che ciascuno sappia ciò che Dio faccia o abbia fatto per la sua salvezza; ma certo è necessario che ciascuno sappia ciò che egli stesso deve fare, per essere meritevole di questa assistenza» (trad. it. Laterza, Roma-Bari 2010, p. 56).
Ma l’avvenimento dell’inizio si dissolve in una morale razionale pura proprio perché non è più intercettato come un presente storico. In questo Kant non fa che compiere il cammino di Gotthold Ephraim Lessing, l’intellettuale tedesco che ne L’educazione del genere umano (1777) aveva teorizzato la religione come il percorso di educazione dell’umanità, che nello stato dell’infanzia e dell’adolescenza ha bisogno di riferirsi ad un “altro” che gli dica come fare e cosa pensare, per arrivare infine a scoprire in sé stessa la capacità di arrivare con le sue sole forze al nocciolo della dottrina morale di Cristo.
Ma è soprattutto nel testo Sulla prova dello spirito della forza (1778) che emerge il famoso “problema di Lessing” (come lo definirà Kierkegaard): «casuali verità storiche non possono mai essere la prova di necessarie verità razionali» (in Opere filosofiche, Utet, Torino 2008, p. 544). Un fatto storico particolare sarebbe di un genere di verità finita, contingente, valida solo per quelli che l’hanno sperimentata direttamente e poi destinata al passato, del tutto differente dalle verità universali che solo la ragione può cogliere in base a principi necessari ed eterni. Anche su questo sono illuminanti le considerazioni di Carrón in diversi suoi recenti interventi (vedi da ultimo in Dov’è Dio. Conversazione con A. Tornielli, Rizzoli, Milano 2017, p. 27).
La cosa sorprendente sta però nel fatto che Lessing non esclude per principio la possibilità che a coloro che per primi si erano imbattuti in una presenza straordinaria come quella di Cristo (un “miracolo” che accadeva imprevedibilmente davanti ai loro occhi), si manifestasse una vera e propria “prova” dello spirito, e ingenerasse in loro l’evidenza della verità universale o eterna circa quell’Uomo come Figlio di Dio.
Il fatto è che secondo Lessing, da Origene in poi (III secolo d.C.), «non c’è più alcun miracolo» (ivi, p. 542). La prova dello spirito, si può dire, si è spostata ora solo nella capacità della ragione umana di concepire il supremo dovere morale. Ma la mancanza di miracoli risente nel profondo della concezione protestante della Chiesa, ereditata da questo autore, per cui Cristo non continua più realmente nella storia (questo è il miracolo), ma solo nella fede morale dei suoi fedeli.
Questa interpretazione lascia comunque aperta per noi la domanda della sua origine: il punto è se anche oggi sia possibile imbattersi nuovamente in una presenza umana straordinaria che, proprio nelle sue fattezze storiche, ci porti a riconoscere la sua natura infinita. In tal caso sarebbe un fatto a mostrare la ragione ultima del nostro stare al mondo, più che la nostra ragione a pre-determinare quello che può succedere.
Non si tratta di una storia passata, questa dell’Illuminismo. La risposta che autori come Lessing e Kant hanno dato all’istanza di una liberazione della ragione umana nel rapporto con la verità, consiste nel separare la ragione dai fatti, nel senso che i fatti non possono dire più niente alla ragione umana circa la verità, cioè il senso ultimo e misterioso del reale. Ma forse questa discrepanza tra la domanda degli illuministi e le loro risposte ci fa capire che la prima era e resta più grande delle seconde. Una domanda che si può affrontare con più spregiudicatezza e più coraggio proprio ora che le risposte del razionalismo moderno sono andate in crisi e la ragione non è più il criterio dell’universale validità riconosciuta da tutti.
Forse proprio nel nostro tempo di crisi può ridiventare semplice capire che solo imbattendosi in una presenza storica particolare possiamo scoprire la verità razionale di noi e del mondo, e che questa verità non ha la fisionomia di un sistema di pensiero, ma piuttosto la novità di un incontro, come un amico che mi stia aspettando. In questo incontro umano la nostra ragione può cominciare a sbloccarsi in libertà, e giocare il suo ruolo di scoperta e di ricerca infinita. Forse proprio nella nostra epoca possiamo cominciare ad essere veramente “illuministi”.

Costantino Esposito
Il Sussidiario.net, 11 aprile 2018