In attesa delle motivazioni, si possono avanzare alcune perplessità sulla sentenza di primo grado che ha comminato 12 anni al generale Mori.
Non è stato emesso un giudizio, ma è stato espresso un «pregiudizio». Con questo termine, Basilio Milio, il legale del comandante dei Ros, Mario Mori, ha commentato la sentenza di primo grado del processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia svoltosi nella Corte di Assise di Palermo. Sentenza che ha portato il giudice Alfredo Montalto a comminare dodici anni di carcere agli ex vertici del Ros Mori e Antonio Subranni, all’ex senatore Dell’Utri e Antonino Cinà. Otto gli anni di detenzione sono stati inflitti all’ex capitano dei carabinieri, Giuseppe De Donno, e ventotto al boss Leoluca Bagarella.
Il sostituto procuratore Nino Di Matteo, che è stato titolare dell’inchiesta e che era stato indicato dal M5s come possibile ministro, ha dichiarato: «Dell’Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi che si era da poco insediato». Dichiarazione che, ovviamente, ha sollevato un mare di polemiche.
INCONSCI PREGIUDIZI. Oggi sul Messaggero il pm Carlo Nordio ha scritto un editoriale di commento alla sentenza dove, come suo costume, con tono pacato ma fermo solleva quattro ragionevoli dubbi su quanto accaduto.
«Primo – scrive Nordio –. Un processo che duri cinque anni è certamente un processo anomalo. E tanto più si attorciglia su se stesso fra tragedie, polemiche e contraddizioni, tanto più condiziona gli stessi giudici che lo stanno conducendo». A Palermo ci si è trovati «ingarbugliati in una matassa di eventi lontani nel tempo, incerti nella ricostruzione e ambigui nell’interpretazione». Una situazione che non può non creare nel giudice «condizionamenti» che poi sfoceranno in «inconsci pregiudizi. In altre parole, se una Corte impiega cinque anni per arrivare a una decisione, è assai difficile che alla fine ci dica che i fatti non sussistono. O comunque che ci dica che i fatti non sono provati al di là di ogni ragionevole dubbio. Non che non ne abbia il coraggio: semplicemente non ne ha la possibilità critica».
SUL PALCOSCENICO. Seconda questione: «Per ora è difficile individuare ricattati e ricattatori. Se, come parrebbe, la mafia si fosse servita di carabinieri e altri funzionari infedeli per condizionare le Istituzioni, poiché queste ultime non esprimono vuote rappresentazioni metafisiche, ma sono incarnate in volti definiti, questi ultimi dovrebbero essere individuati nei rispettivi ruoli specifici». Invece, nel nostro caso, fa notare Nordio, è stato tutto un entrare e uscire di politici di primo piano, ascoltati (Napolitano), incriminati e poi assolti (Mancino e Mannino) e, in un caso (Loris D’Ambrosio), addirittura morto di crepacuore. Insomma, uno show, e nota Nordio: «Questo palcoscenico non può restare senza protagonisti, limitandosi a esibire qualche comparsata. Se questo vuoto non fosse colmato la sentenza resterebbe inspiegabile.
INGROIA E DI MATTEO. Terzo dubbio. Nordio nota che i giudici sono stati «ineccepibili», nel senso che per tutto il tempo non hanno rilasciato dichiarazioni e sono stati assai riservati. La stessa cosa non può essere detta dei pubblici ministeri. Qui, senza nominarli, Nordio si riferisce ad Antonio Ingroia che «si è dato, senza successo, alla politica, in costanza di processo» e a Nino di Matteo che «ha partecipato a dibattiti preelettorali, proponendosi anche per eventuali candidature; e quel che è peggio, dopo la sentenza, ha tirato in ballo un personaggio politico (Berlusconi, ndr) che al processo non aveva partecipato». Il giudizio di Nordio su tale modus operandi è lapidario: «Un gesto assai grave e che comunque vulnera, una volta di più, il principio della separazione dei poteri e la stessa credibilità della magistratura».
BANDITI? C’è poi un ultimo dubbio di buon senso espresso da Nordio: «Guardando retrospettivamente quegli anni lontani, notiamo che quasi tutti i vertici delle Forze dell’Ordine e dei Servizi di sicurezza chiamati in causa sono stati inquisiti salvo poi, in molti casi, essere assolti con clamore. I due generali dei Ros, ora condannati, avevano un glorioso medagliere di successi contro il terrorismo e la delinquenza organizzata: così come lo aveva Contrada, e tanti altri generali e dirigenti di cui non vogliamo fare il nome per non rievocarne il dolore. Ora ci domandiamo: è possibile che per anni siamo stati “tutelati” (si fa per dire) da una masnada di banditi? E in caso affermativo, dov’era la politica che li aveva piazzati in quei posti? Oppure è nella nostra giustizia che qualcosa non ha funzionato, e forse continua a non funzionare?».
UN NOTA BENE SUL GIUDICE. Aggiungiamo noi un nota bene a beneficio del lettore. Alfredo Montalto, il presidente della Corte di assise di Palermo che ha emesso la sentenza di condanna per la trattativa Stato-mafia, è lo stesso che, da gip, il 13 febbraio del 1995 ordinò l’arresto di Mannino, motivando il provvedimento con il pericolo di depistaggi nelle indagini. Mannino rimase dieci mesi in carcere e quattordici ai domiciliari. Il risultato dopo anni di processi? Assolto.
La Redazione
Tempi.it, 23 aprile 2018