Perseguitato dal regime comunista vietnamita, con la sua fede semplice e ferma riuscì a convertire persino i suoi carcerieri.
È dedicato ai condannati a morte per la loro fede e a tutti quelli che, innocenti, sono perseguitati dalla giustizia il romanzo di Teresa Guitiérrez de Cabiedes Van Thuán libero tra le sbarre (Roma, Editrice Città Nuova, 2018, pagine 349, euro 20). E in questa dedica si specchia l’eroica vicenda del cardinale vietnamita, ricordato da Papa Francesco nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate: due giorni dopo essere stato nominato, da Paolo VI nel 1975, arcivescovo coadiutore di Saigon, Van Thuán fu arrestato dalla polizia. Trascorse tredici anni in prigione, di cui nove in isolamento nelle terribili carceri di Vinh Quang. Venne poi liberato il 21 novembre 1988. Quella del porporato, come sottolineò Giovanni Paolo II, fu «una vita spesa nell’adesione coerente ed eroica della propria vocazione». E quell’adesione, convinta e incrollabile, è celebrata più volte nel libro.
Durante un interrogatorio, martellante e impietoso, condotto dalle autorità vietnamite in un ufficio soffocante, dove il denso silenzio era interrotto solo dal volo di un moscone, Van Thuán non cede alle minacce e alle pressioni. Quando gli viene ripetuto per l’ennesima volta che è accusato di propaganda imperialista e di essere un infiltrato delle potenze straniere, il prigioniero, senza battere ciglio e con ferrea determinazione, risponde: «L’ultima cosa che voglio è tradire il mio Paese, per il quale ho vissuto e per il quale desidero continuare a vivere».
E in un crescendo di tensione e oppressione uno degli aguzzini gli fa presente che il 23 aprile «sei stato nominato capo della tua Chiesa a Ho Chi Minh City» e che oggi, 15 agosto, «hai ancora quell’incarico», nonostante tutti i messaggi di minacce fattigli pervenire affinché rinunciasse. La risposta di Van Thuán è netta: «Non posso abbandonare il mio popolo».
Il valore della sua testimonianza acquista poi un rilievo ancor più forte quando riesce a scalfire e a fare breccia nel cuore dei carcerieri. Anche a loro, soprattutto a loro, accecati da un’ideologia chiusa a ogni sentimento che non sia odio o avversione, Van Thuán dispensa un amore genuino, puro. E i carcerieri, da un atteggiamento così sorprendente e disarmante, sono da principio spiazzati, e poi conquistati.
Ed è questo atteggiamento — lezione di vita e splendida eredità spirituale da consegnare ai posteri — che permette a Van Thuán di sostenere, senza vacillare, il peso del martirio. Configurandosi, nel contempo, quale incarnazione del messaggio di perdono e di riconciliazione, tanto più importante perché diffuso in un mondo segnato da divisioni e solcato dalla sete di vendetta.
Del resto egli discendeva da una famiglia che annoverava numerosi martiri. Nel 1885 tutti gli abitanti del villaggio di sua madre furono bruciati nella chiesa parrocchiale, eccetto suo nonno che, in quel tempo, studiava in Malesia. I suoi antenati paterni erano stati vittime di molte persecuzioni, tra il 1698 e il 1885. Il suo bisnonno paterno, insieme con altri familiari, era stato forzatamente assegnato a una famiglia non cristiana in modo che perdesse la fede. Questa vicenda il bisnonno la raccontò al giovane Van Thuán, ricordando un particolare certamente non da poco: ogni giorno, all’età di 15 anni, faceva a piedi trenta chilometri per portare a suo padre, in prigione perché cristiano, un po’ di riso e un po’ di sale.
Dunque la vocazione a essere testimone della fede fino all’effusione del sangue faceva parte del bagaglio cromosomico di Van Thuán, e la persecuzione cui poi è stato sottoposto nel corso della sua vita è servita a esaltare quel talento in tutta la sua forza.
Le privazioni patite durante gli anni della prigionia non gli impedirono comunque di celebrare, di nascosto, la messa nella sua cella, riuscendo con i poverissimi mezzi a disposizione anche a ricreare i rudimenti della liturgia. Per conservare il Santissimo, aveva usato persino la carta dei pacchetti di sigarette. La notte aveva organizzato turni di adorazione davanti all’Eucaristia. Era in isolamento ad Hanoi quando una signora, agente di polizia, gli portò un piccolo pesce che lui avrebbe dovuto cucinare. Il pesce era avvolto in due pagine dell’«Osservatore Romano». Quando arrivava ad Hanoi per posta, il giornale veniva requisito e poi venduto al mercato come carta. E quelle due pagine erano state usate per incartare il pesce per lui. Allora, senza farsi notare, egli aveva lavato bene quei due fogli e li aveva fatti asciugare al sole, conservandoli come una reliquia. Nell’isolamento della prigione, quelle due pagine erano per Van Thuán — che sarebbe diventato presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace — un segno forte della comunione con Pietro.
Una comunione che trovava continuo e corroborante alimento nella speranza, che mai abbandonò Van Thuán, nemmeno nei momenti più difficili e bui. Il suo motto episcopale era, non a caso, «Gaudium et spes», e quasi tutti i suoi libri, alcuni dei quali scritti di nascosto mentre era in prigione, recano la parola “speranza” nel titolo. Ed è proprio questa speranza, radicata nell’amore misericordioso di Dio, che ha permesso a Van Thuán — come ricorda il titolo del libro di Teresa Guitérrez de Cabiedes — di essere libero tra le sbarre. Vedendo così la luce dove c’e il buio, e di apprezzare sempre la vita pur nel costante incombere della morte. E nelle ultime pagine del romanzo s’impone il tratto inconfondibile del sentire di Van Thuán. Sta per essere liberato, ma c’è chi gli fa notare che potrebbe essere solo una messinscena, dandogli l’illusione, e per questo ancor più crudele, di un’indipendenza ritrovata, senza più lacci né catene. Ma Van Thuán non si scompone e si fa forte di tale certezza, ovvero che tutto ciò che succede è protetto a Dio, che niente e nessuno potrà mai usurpargli la libertà, e che niente e nessuno riuscirà a impedirgli di sperare contro ogni speranza.
Gabriele Nicolò
Tempi.it, 13 aprile 2018