Un Paese in forte crisi demografica, archiviati decenni di politica del figlio unico, si rivolge sempre più alla provetta per avere eredi. Ma si chiedono garanzie politiche sul “donatore” di seme.
Si estende il controllo del Partito comunista sulla vita pubblica nella Repubblica popolare cinese, sollecitato dal presidente Xi Jinping nel suo impegno al rafforzamento e alla regolamentazione del suo immenso Paese.
Mentre si allarga la rete delle cliniche della fertilità, con un numero crescente di donne che si prestano al congelamento degli embrioni per una maternità pianificata in età matura, cresce anche la richiesta di donatori di seme, con campagne che arrivano a coinvolgere anche prestigiosi centri medici.
Tra questi, il Terzo Ospedale dell’Università di Pechino, che nella campagna in corso sino a fine maggio sta applicando le nuove norme richieste dal Partito alle banche del seme della capitale. Indicazioni, pubblicate in evidenza nel sito Internet dell’istituzione, che riguardano anzitutto le condizioni del donatore: età superiore ai vent’anni, capigliatura folta, senza problemi di vista o di sovrappeso. A sorprendere persino i cinesi – non a caso è la loro sorpresa che ha dato avvio a un dibattito sui media – è la richiesta di «caratteristiche politiche opportune». Secondo le indicazioni originali, che probabilmente tendono a garantire un equilibrio psicofisico del donatore che sia garanzia di una prole selezionata forse anche in senso ideologico, occorre che il candidato «ami la madrepatria socialista e abbracci la guida del Partito comunista», ma anche che «sia leale agli impegni del partito, abbia moralità, rispetti la legge e sia libero da ogni problema politico».
Le regole più stringenti sono anche conseguenza del maggiore utilizzo di tecniche di fecondazione dopo la liberalizzazione graduale della prole dal gennaio 2015 e la fine della “politica del figlio unico” che per un quarantennio ha segnato la società cinese, con una serie di conseguenze e distorsioni. Conseguenze ammesse ufficiosamente anche dai pianificatori non solo per la mancata nascita di 400 milioni di cinesi ma anche per la crisi demografica che oggi si palesa davanti alla leadership del Paese, incapace di spingere i cinesi a far più figli mentre la popolazione va invecchiando e la carenza del “fattore umano” rischia di far deragliare riforme e sviluppo. Nonostante gli incentivi, le coppie che si sottopongono a tecniche di procreazione artificiale si inseriscono in liste d’attesa di oltre un anno, conseguenza anche della scarsità di donatori “selezionati”, circa il 20% di chi si offre.
La commercializzazione dei gameti non è consentita (anche se nel prestigioso ospedale di Pechino si segnala un rimborso equivalente a circa 700 euro per donazioni multiple nell’arco di sei mesi). La “donazione” può essere praticata soltanto in istituzioni approvate alle quali solo le donne sposate sono autorizzate a rivolgersi se il marito non è in grado di procreare o se esiste la possibilità di una trasmissione di malattie genetiche.
Le nuove regole segnalano che il settore – al pari della maternità surrogata – è in via di regolamentazione, anche se l’applicazione risulta spesso difficile o arbitraria. Nel complesso la società cinese, ancora nel guado fra tradizione e nuovi stili di vita con specifiche caratteristiche locali, osserva con un misto di sollievo, curiosità e ironia le iniziative che in rapida successione vanno smantellando un sistema di gestione demografica per decenni indicato come indispensabile.
Stefano Vecchia
Avvenire.it, 20 aprile 2018