Il racconto autobiografico di una giovane donna che perde il marito e con la sua morte ritrova Dio.
“La buona battaglia” è l’autobiografia di Susanna Bo , incentrata sulla storia di Luigi, un ragazzo affascinante, che si dichiara ateo ma comincia ad ascoltare le catechesi del cammino Neocatecumenale, e di Susanna, una brava ragazza, studiosa, ma distaccata e schiva, che – pur frequentando la parrocchia – non sente di amare particolarmente nulla. Tutto questo “fotografa” l’inizio del loro amore, per poi dipanarsi attraverso i binari della malattia di lui, e dei rispettivi ed articolati percorsi di fede che rappresentano la lente attraverso cui “leggere” la storia di questo incontro. La narrazione si caratterizza per toni che commuovono e allo stesso tempo fanno anche sorridere, e sotto la forma di un discorso immaginario che Susanna rivolge a Luigi rivisitando il senso della loro vita insieme.
«(…)sentii parlare per la prima volta di te (…) in seconda liceo (…) I miei erano diventati catechisti a tutti gli effetti. Di solito, la sera, quando tornavano, ero ancora in piedi e capitava che si parlasse di come erano andati gli incontri, o di quanta gente fosse andata. (…) Abbiamo chiesto a un ragazzo: se dovessi incontrare un ateo e spiegargli perché credi in Dio, che cosa gli diresti? E lui ha risposto: non gli direi proprio niente perché anch’io sono ateo». Era cominciata la tua buona battaglia. All’epoca non potevo sapere che da quell’ateo sarebbe dipesa la mia vita futura. Eppure, nonostante non sapessi niente di te, da quel momento cominciai a chiedere spesso a mia madre delle catechesi».
A questo punto il destino per i laici, o meglio la Provvidenza per chi crede, ci mette lo zampino.
«La mia parrocchia, qualche tempo dopo le catechesi, organizzò un incontro di giovani: io e Teresa ci piazzammo in prima fila a studiare i nuovi arrivati, ma non trovammo nessuno degno di nota, tranne un ragazzo alto, con un giaccone blu, che si sedette sulla panca di fronte a noi. Non era male, in effetti. Doveva avere la nostra età, forse un paio di anni di più. Lo guardai spesso, quella sera. Tornando a casa chiesi a mia madre come si chiamava. «Si chiama Luigi. Ma tu lo sai già chi è”. “Perché?». «Perché è l’ateo» Da quella sera smisi di chiamarti l’ateo e diventasti Luigi, un nome che tuttavia non avrei pronunciato spesso nei cinque anni successivi».
Come spesso succede, l’innamoramento è questione di un momento e nel caso di Susanna avviene nella biblioteca comunale: «Credo di aver sempre saputo che l’uomo della mia vita sarebbe apparso all’improvviso nella penombra di quella biblioteca e che, semplicemente, mi avrebbe detto: «Ciao Susanna». (…) credo di aver sempre avuto una certezza, fin da allora: e cioè che, quando avessi incontrato quella persona, mi sarei maledetta. Certo, mi sarei maledetta per non essermi lavata i capelli prima di uscire, per non aver sistemato le sopracciglia, per non aver dato una spruzzatina in più di deodorante sotto le braccia. Accidenti, le braccia. Per qualche strana ragione, dopo averti visto avevano cominciato a bagnarsi in alto. Zona ascelle. Possibile che l’amore, che è un sentimento così nobile e delicato, abbia sempre a che fare con la bocca asciutta, il sudore e tutta quella serie di altri liquidi organici e odori per niente nobili e delicati? (…)Che tu fossi un bel ragazzo, lo avevo sempre pensato. Ma non mi stavi chiedendo di sposarti. Mi avevi solo proposto di andare a fare un giro».
Questo momento rappresenta almeno per Susanna l’inizio del suo innamoramento che progressivamente coinvolge entrambi in una vera storia d’amore. Durante questo periodo Luigi subisce i primi interventi chirurgici al cervello per la presenza di un meningioma, tumore benigno ma recidivante e, pochi mesi prima del matrimonio, manifesta una grave crisi epilettica alla guida della macchina su cui viaggia con Susanna, che per la prima volta si rende veramente conto di cosa sia la malattia del futuro marito. La sera prima del matrimonio il padre, notando l’agitazione di lei, intuisce che ha a che fare dal fantasma del tumore di Luigi.
“«Lo ami?» (…) Lascia perdere la casa, i soldi, gli invitati, me, tua madre, i tuoi suoceri e anche lui. Lascia perdere tutto, per un secondo. Pensa solo a una cosa: tu gli vuoi bene? Lo ami, ‘sto ragazzo?»(…) E se adesso decidi che non te la senti più ricordati che nessuno, nemmeno il Padreterno, avrà mai il diritto di giudicarti. Ma prima di scegliere rispondi a quella domanda. Perché è sicuro che soffrirai se lo sposi; ma se lo ami soffrirai ancora di più se non lo sposi. Guarirà? Speriamo. Non guarirà? Arriverai al punto di dovergli pulire anche il culo? Non ti peserà, se gli vuoi bene. Ti sembrerà di pulirlo a tuo figlio. Io non mi so esprimere, siete voi che avete studiato. Ma… insomma… ci siamo capiti”. Sì, ci eravamo capiti. Avevo capito perfettamente quello che aveva voluto dirmi. E adesso stava a me capire cosa volevo. Stava a me. (…) Il giorno dopo eravamo marito e moglie.”
Dopo uno splendido viaggio di nozze, Susanna e Luigi cominciano la loro avventura di sposi che fin dall’inizio deve fare i conti con la salute precaria di lui, le cui manifestazioni vengono inizialmente interpretate dalla moglie come uno scarso interesse per lei e la loro vita di coppia. Nascono a distanza di un paio di anni l’una dall’altra le due figlie, mentre progressivamente la malattia di Luigi peggiora rendendo necessari ulteriori e dolorosi interventi chirurgici. Susanna vive il dramma della malattia sostenendo Luigi sia sotto il profilo pratico che emotivo, ma sviluppando un sentimento di rabbia e di sfiducia nei confronti di Dio pur continuando a frequentare la comunità e a ricevere i sacramenti, in gran parte per compiacere il marito. Al contrario Luigi, seppur provato e impoverito delle sue facoltà dalla malattia, rafforza il suo rapporto con Dio recitando il rosario tutti i giorni e rivolgendo costantemente lo sguardo ad un grande crocifisso che ha voluto venisse collocato nel salone della loro casa, vincendo l’iniziale resistenza della moglie a cui sono crollate tutte le certezze della fede. Quando arriva il momento della fase terminale della malattia, vissuta nel contesto di un hospice, Susanna è costretta ad affrontare l’angoscia dell’addio.
«I medici mi dicevano di parlarti. Di toccarti, di farti sentire la mia vicinanza, ma non sempre ce la facevo. A volte desideravo solo che finisse tutto al più presto. Più ti stavo vicino, meno riuscivo a dirti addio. Solo l’ultima sera ce la feci. Mi avvicinai al tuo viso e ti dissi che eri bello. Che eri stupendo, di non pensare che non eri bello perché quella era una gran cavolata. Dovevi aver capito cosa stavo per fare, perché ebbi la netta sensazione che i tuoi occhi mi dicessero: «Ora ti vedono e ti fanno un mazzo così». Ma già avevo abbassato la spalliera del letto, già ti avevo spostato la pompetta della morfina e già le mie gambe erano salite, e poi il mio busto, e il braccio intorno al tuo braccio, e mi ero stretta contro la tua schiena. Sapevo che ti restavano poche ore di vita, e forse per questo motivo pensai che se avessi potuto parlare mi avresti detto: «Oh, finalmente. Ce ne hai messo di tempo per capirlo. Volevo solo un po’ di coccole. Come abbiamo sempre fatto, prima di addormentarci. Adesso sono contento. Adesso posso addormentarmi». (…) Le infermiere del turno di notte mi lasciarono lì, a dormire con te. A mezzogiorno dell’indomani il mio indiano mi avrebbe lasciato».
Susanna all’inizio del rito funebre prende la parola per ricordare Luigi e, pur avendo pensato a lungo e preparato un discorso, sceglie di andare a braccio rendendosi conto solo dopo di chi l’avesse sostenuta in quel momento.
«Cinque minuti dopo aver finito di parlare, non ricordavo già più cosa avevo detto; forse qualcosa a proposito del fatto di non avere paura. Perché a un certo punto della nostra storia ne ebbi tanta. Ebbi paura che tutto quello in cui avevamo sperato e creduto in quegli anni non fosse vero. Che non ci fosse niente dopo la morte. Che la fede fosse una specie di barzelletta da raccontarsi nei momenti duri, per tirarsi su di morale. O un salvagente mezzo sgonfio per affondare meno velocemente nella depressione. Mi ero sbagliata, per fortuna. E lo dissi, lo volli dire davanti a tutte quelle persone, che la fede non è una barzelletta. Né una pietosa bugia, come avevo a un certo punto anche pensato. La fede è una realtà concreta, ma è soprattutto un dono, e si può chiedere in un modo solo: pregando. Come hai sempre fatto tu. L’ultima settimana a Brescia mi ero detta che ti avrei aiutato a credere al Paradiso. E solo al tuo funerale mi resi conto che invece eri sempre stato tu, in quei dieci anni, ad aiutare me. E sentii che mi aiutasti anche al funerale, quando parlai».
«Quello che provai mentre celebrammo il tuo funerale fu qualcosa di molto simile a una risurrezione. Non so come altro dirlo: mi sentii felice. Ma è veramente difficile descrivere la gioia pura. È come cercare di descrivere una torta e la sua bontà. L’ideale sarebbe mangiarsene una fetta. Ecco perché, probabilmente, mi sentii così: perché, non potendo descrivermi il Paradiso, decidesti di darmene un assaggio».
Silvia Lucchetti
Aleteia, 23 Aprile 2018