Se il Canada è arrivato a rappresentare l’avanguardia dei “diritti umani” progressisti, della “gender revolution” e di tutte le derive occidentali conosciute, un motivo c’è. Ed è perfino più desolante di quanto si creda.
Con un amico franco-canadese e un fotografo ritrattista di talento, una volta progettai di scrivere un grande libro illustrato sul Canada. L’idea era di viaggiare coast-to-coast – dalla penisola di Avalon sull’isola di Terranova fino allo scoglio più lontano di Vancouver – a cercare guai e a fare foto. Esistono parecchi libri illustrati sul Canada; il nostro, naturalmente, sarebbe stato diverso. Avrebbe raccontato le storie ribelli dei luoghi, compreso l’elemento della farsa, avrebbe scavato nella cultura e nella cucina ancestrali e intervistato i personaggi più pungenti, pur mantenendo un tono equivocamente affettuoso. Avrebbe sovvertito diversi cliché nazionali, e sparato a qualche vacca sacra.
Ma ci mettemmo subito a litigare. Io trovavo il mio candidato coautore troppo indulgente verso il Canada inglese; lui trovava me troppo indulgente verso il Quebec; il fotografo trovava entrambi noi ingenui nei confronti degli indiani. Io ero allergico al pittoresco e al romantico (che vendono). Né intendevo riecheggiare la pretesa di profondità che trapelava dal titolo di una indagine di un giornalista celebre a suo tempo, Canada: The Unknown Country (Canada, il paese sconosciuto, ndt). In effetti proposi Canada: The Stupid Country, nel tentativo di sconvolgere tutti quanti.
Sono passati anni da allora, e lungi dall’essere stato portato a termine, questo progetto deve ancora partire. Forse ne sto scrivendo l’introduzione solo adesso.
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Sarebbe facile affermare che il Canada non è affatto un paese, o che non è più un paese, bensì una trapunta di regioni americane d’avanzo, cucite assieme in modo bislacco. Non ha alcun principio organizzativo che un qualunque suo abitante sia in grado di articolare. Da un lato la stessa etnia dominante, che parla inglese per nascita o per convenienza, non è altro che un’estensione settentrionale del Nord America anglofono, anche noto come Stati Uniti. La maggior parte della nostra gente vive a pochi minuti in auto dal confine statunitense. È un fatto che ha ragioni climatiche, e sono inoppugnabili. Le nostre differenze regionali, da est verso ovest lungo questa striscia sottile, sono superiori a quelle che ci sono verso la regione americana limitrofa. Quando i nostri nazionalisti presumono che i loro avversari vogliano che il Canada diventi “il 51esimo stato americano”, io li contesto. No, noi diventeremmo dal 51esimo al 60esimo stato.
Però abbiamo anche consapevolmente rigettato la nostra vecchia identità politica britannica del “Crown-in-Parliament”, che faceva una certa differenza. Poiché ciò che ci distingueva un tempo come nazione era il fatto che i nostri antenati avevano perso la Rivoluzione americana, con quei bizzosi “Patrioti”. Noi eravamo i “Lealisti” che, nel 1776, si rifiutarono violentemente di ribellarsi, poi marciammo nelle terre selvagge del nord per liberarci dalla tirannia del governo popolare. (“Meglio un tiranno a tremila miglia di distanza che tremila tiranni a un miglio di distanza”).
In realtà entrambi i fronti erano yankee bisbetici e testardi; il nostro era più variegato a livello razziale. Ma noi da allora abbiamo copiato diverse istituzioni statunitensi, dalla Corte suprema al pietoso sport del baseball, mentre abbandonavamo il nostro antico entusiasmo per la Corona, rimpiazzandolo con luoghi comuni e ciance democratiche. E così ora le vestigia residue della nostra inconfondibile identità ci risultano estranee. Siamo propensi a chiedere perdono per esse.
Margaret Atwood, femminista all’americana, ha scritto un libro (Survival) nel quale ha colto la storia del nostro paese precedente alla sua maturità esattamente al contrario. Ci presentava come vittime dell’Imperialismo. Ma siamo sempre stati carnefici: imperialisti, e piuttosto orgogliosi di esserlo. La nostra sola frustrazione era che quella attempata nonnetta inglese restava aggrappata alle redini. E poi, quando sarebbe toccato a noi guidare l’Impero, la vecchia sciocca lo ha dato via.
Fino a poco tempo fa gli americani, come gli europei, imparavano le loro storie e mitologie nazionali a scuola. I canadesi di oggi non hanno idea delle nostre. I giovani laureati credono che la storia sia iniziata nel 1982, quando Pierre Trudeau dichiarò l’indipendenza e liberò gli schiavi. Se qualcosa è successo prima di allora, dev’essere stato vergognoso, come hanno confermato le nostre autorità l’anno scorso, quando avremmo dovuto celebrare il 150esimo anniversario della vera fondazione – del nostro “Dominion”, come ormai non si chiama più. (Adesso è un “governo federale”, proprio come gli Stati Uniti). È stato un cupo festival dell’esibizione delle virtù liberal-progressiste, un anno intero durante il quale abbiamo chiesto perdono agli indiani per avere rubato, pare, la loro terra. Ciò ha sortito molti momenti involontariamente comici, tipicamente canadesi. Noi adoriamo chiedere perdono, e siamo bravi a farlo. Chiedere perdono per crimini in cui nessuna persona vivente potrebbe mai aver preso parte è quello che sappiamo fare meglio.
Piuttosto morire di noia
Siamo anche leader mondiali nel mettersi in coda. Ci piace formare file garbate e pazienti per qualunque cosa, dai moduli burocratici al caffè di Tim Horton. Potrebbe essere scaturita una “differenza culturale” in questa specialità, dal momento che agli americani ancora non piace aspettare. Piuttosto ti sparerebbero. Ai canadesi invece piace sistemarsi in file lunghe, tortuose e diligenti, per le quali, ahimè, non è prevista una medaglia olimpica. E a differenza degli americani, noi non parliamo con gli stranieri, dunque non c’è traccia della socializzazione che si ha a sud del confine quando un autobus è in ritardo. Rivolgete la parola al canadese in coda accanto a voi e il suo primo impulso sarà chiamare la polizia.
Invece di pavoneggiarci per questo talento, ci limitiamo a irradiare soddisfazione e autocompiacimento. I nuovi immigrati imparano: a camminare come un canadese, per esempio, e a chiedere perdono a un palo di lampione, casomai capitasse di scontrarsi con esso.
Sottolineo questo aspetto perché è cruciale – cruciale per comprendere quella che potremmo chiamare “atrofia” canadese. Siamo un popolo che non va da nessuna parte di preciso, dunque non ha fretta. Abbiamo qualche capitalista invadente, certo, ma quelli sono un prodotto di natura. Il resto di noi accetta, perfino il clima; al giorno d’oggi possiamo volare in Florida quando diventa insopportabile. Un amico americano, dopo una lunga permanenza qui, ha raccontato che cosa accadrebbe se si passasse con la macchina sopra a un canadese, dividendolo in due. La metà superiore si trascinerebbe fino al vostro finestrino. E direbbe: “Mi scusi signore, dovrebbe fare attenzione ai pedoni”.
È cruciale perché spiega il motivo per cui, a un osservatore distante, il Canada sembra essere all’avanguardia dei “diritti umani” progressisti, della tolleranza verso la droga e della “gender revolution”. Non è che i canadesi siano straordinariamente depravati. Il canadese medio morirebbe di noia piuttosto che partecipare a un’orgia. Abbiamo il “matrimonio gay” da 15 anni qui, ma a malapena si trova un contraente. Abbiamo tribunali dei diritti umani, reminiscenze delle Camere stellate dei secoli andati, e adesso anche leggi che regolano il nostro uso dei pronomi, ma nessuno vi presta la minima attenzione. Se qualcuno dovesse mai entrarci in conflitto, costui si presenterebbe tranquillamente, e domanderebbe perdono a chiunque. Abbiamo l’aborto legale, senza alcuna restrizione nemmeno nominale, e ovviamente abbiamo anche alcuni attivisti “pro-life”; ma non piacciono a nessuno perché sono così “unCanadian”.
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Forse dovrei osservare che quello che è vero oggi non lo era nel passato. I canadesi hanno fatto di certo la loro quota di danni nelle due guerre mondiali e in Corea. Dalle memorie dei tedeschi si apprende che le nostre truppe – giovani metodisti di campagna dell’Ontario e simili – li riempivano di terrore. Potevano essere patologicamente aggressivi fino all’inverosimile, poi fermarsi di colpo per il tè. Lo stesso valeva di norma per la generazione dei miei genitori. Potevano fare scenate quando non venivano serviti; non avreste voluto incrociarli. La nostra tradizione femminista nasceva da donne pioniere che sgomberavano rocce e ceppi d’albero prima di seminare il grano. Non c’era bisogno di spiegare a loro i loro i diritti. Ma tutto questo è svanito.
La storia della rivoluzione post-moderna non è di sicuro una storia canadese. Come si addice alla nostra stirpe, sostanzialmente anglo-normanna e franco-normanna, eravamo per Dio, il Re e la Patria, e nel caso degli anglofoni, estremamente svelti ad arruolarci nelle guerre. I francesi del Quebec furono notoriamente sconfitti nella piana di Abraham nel 1759, e qualche volta se ne sono lamentati. Ma c’è stata profonda continuità anche nella loro esperienza. Dai loro primi approdi a oggi, sono vissuti sotto l’uno o l’altro monarca; la sua etnia non contava molto. Solo nel 1960, all’improvviso e quasi inspiegabilmente, si sono destati dal loro torpore medievale e hanno rovesciato… la loro Chiesa cattolica.
Un separatismo paradossale
A partire da quella “Rivoluzione tranquilla” – nessuno fu colpito nemmeno da una palla di neve – si sono baloccati con un separatismo paradossale e bizzarro. Avendo distrutto la loro stessa eredità, pretendono che essa sia preservata dall’immersione nella cultura “anglo” che li circonda: la medesima che hanno abbracciato con tanta impazienza. Di qui le leggi oppressive sulla lingua, con i burocrati che misurano per davvero la dimensione in punti di qualunque espressione inglese che appaia su un cartello o un’etichetta, e altre imposizioni incredibilmente cavillose, immediatamente derogate per i turisti americani.
È così che è diventato possibile che nella stragrande maggioranza del Canada che parla solo inglese i servizi pubblici siano bilingui; ma nelle aree bilingui sono solo in francese. La capitale nazionale, Ottawa, parla inglese per le strade, ma francese negli uffici del governo. Ciò è molto normanno: anche l’Inghilterra era così nel dodicesimo secolo. Ed è molto canadese: poiché la gente qui prende ogni cosa a capo chino. O meglio, la aspettiamo mettendoci in coda.
E questo è il motivo per cui il Canada è avanzato fino al limite estremo della depravazione contemporanea: perché nessuno – francese, inglese o “multiculturale” assimilato che sia – penserebbe mai di protestare. Sto esagerando, certo. Non proprio nessuno. Ci sono alcune eccezioni. Ma penso di conoscerle tutte.
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Il Canada, dal mio punto di vista – e parlo solo da quello –, era l’obiettivo ideale per la “lunga marcia attraverso le istituzioni” che associamo a Gramsci e alla “Scuola di Francoforte” dei marxisti dei giorni nostri. Anziché sprecare il loro tempo con la retorica incendiaria e le bombe, come gli inconcludenti anarchici prima di loro, essi avrebbero infiltrato lo Stato e le professioni. Avrebbero gradualmente creato le condizioni per cui il comunismo poteva essere raggiunto: una società di uomini di paglia terrorizzati dal fuoco. Anziché investire nella propria propaganda, si sarebbero impossessati dell’apparato pubblicitario della società che volevano controllare. I metodi sanguinosi non avrebbero funzionato; la gente avrebbe visto che cosa stavano facendo e li avrebbe fermati. Invece avrebbero provato i metodi dell’orto.
E questi ultimi funzionano a meraviglia in un paese di ortaggi. Se un manipolo di canadesi alza la voce, gli altri si comporteranno come carote scontrose. Rivolgeranno la loro irritazione, se dovessero mai ritrovarsene addosso un po’, non contro il loro aggressore, ma contro la fonte del rumore.
Ho preso parte a un delizioso esempio di questo su un tram di Toronto qualche anno fa, allorché un autista che aveva dovuto cambiare percorso si rifiutò di concedere ai suoi passeggeri un transfer, citando una formalità assurda. Frodate dei loro biglietti, venti persone si accomodarono tranquillamente sul marciapiede. Io decisi di discutere la questione con l’autista, che reagì con indifferenza passivo-aggressiva. (I dipendenti pubblici in Canada potrebbero far detonare ordigni nucleari senza essere licenziati). Ma una volta sceso dalla vettura, sconfitto, notai che i miei compagni passeggeri erano finalmente alterati. Questo non perché l’autista li avesse fregati, ma perché io lo avevo affrontato. Avevo creato una controversia, disturbato la pace. Immaginatevi un intero paese così.
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Beh, sono arrivato fin qui senza nemmeno citare il nome del nostro attuale primo ministro: Justin Trudeau. Come suggerisce il nome, è il figlio del defunto Pierre Trudeau, che governò con piglio prossimo al sadismo, vincendo quattro elezioni e passando agli occhi dei progressisti qui e in tutto il mondo come un gran figo. Trudeau père, educato dai gesuiti, aveva parecchie qualità ammirevoli, come la lucidità mentale e il coraggio. Ma nel complesso era un pessimo soggetto. Non direi lo stesso di Trudeau fils.
Quando lo abbiamo eletto, noi tutti conoscevamo le scarse qualifiche che aveva Trudeau per l’incarico. Era stato un istruttore di ginnastica e buttafuori in un nightclub. Si dice che una volta abbia insegnato teatro, per poco tempo, a una classe di un liceo di Vancouver. Aveva anche dei bei capelli, ed era il figlio dell’Übermensch. L’unica posizione politica nota di Justin era il sostegno alla legalizzazione della marijuana. Ma il Partito liberale del Canada, che è stato al potere per la maggior parte del ventesimo secolo, ha dei retrobottega formidabili. Avevano solo bisogno di una faccia da mettere sui cartelloni.
Immaginate la loro sorpresa, e la nostra, quando si scoprì che il giovanotto aveva anche altre opinioni. O meglio, non opinioni, che implicano un pensiero cosciente, più che altro ha le posizioni tipiche della sua generazione. Non è affatto un pensatore, è un prodotto dell’inflazione educativa. Si vede in ogni occasione.
Quando, per esempio, introduce una legge che impone a chi fa domanda di fondi pubblici di approvare una lista di qualunque cosa dal matrimonio gay al transessualismo fino all’aborto senza domande; o quando mette l’uso dei pronomi preferiti nel codice penale, non c’è nessuno che possa fermarlo. Il suo governo è pieno di ragazzini che la pensano allo stesso modo, scelti statisticamente in base al colore e al genere; quelle cose a loro appaiono ovvie. Non tormentano le loro belle testoline dandosi il pensiero delle conseguenze. E quando vengono affrontati da qualcuno che tenta di portarli a ragionare – gente più vecchia, sebbene spesso della stessa parte politica – restano sinceramente disorientati. Come si può essere contrari a una cosa che è politicamente corretta? Non lo avevano mai sentito prima. I loro avversari devono essere tutti nazisti.
La Generazione X al potere
Non sto scherzando: davvero non si sono mai trovati alle prese con null’altro che non fossero le fatue idee che vengono inculcate oggi nei campus – non solo in Canada, ma in tutto l’Occidente. La “lunga marcia attraverso le istituzioni” è passata prima che loro nascessero.
Abbiamo avuto un’anteprima di tutto ciò con il presidente Obama, ma adesso siamo dentro il film. Obama era brillante e aveva una qualche percezione che esistono altre visioni del mondo. Si prendeva la briga di ingannare i suoi avversari. Il giovane Trudeau non lo fa mai. È meravigliosamente candido. Le sue idee sugli uomini e le donne, sull’economia, sulla storia, su Dio e l’Uomo, sulla legge naturale e la legge positiva e così via – sono tante bolle nel suo bagno alle erbe. Non sa che le sue opinioni non sono originali, che si sono infiltrate tutte durante il processo di lavaggio del cervello nel lavatoio delle pecore.
Guardando al futuro, possiamo solo aspettarci che il film continui. Perché la verità è che il nostro ridicolo e infantile primo ministro è in cima alla cresta di quella “Generazione X” che dovrà inevitabilmente salire al potere paese dopo paese. Noi in Canada abbiamo solo il privilegio di godercela per primi, grazie alla nostra abitudine nazionale a essere supini.
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Ma c’è un rovescio della medaglia. Noi siamo tipicamente facili all’imbarazzo. Pare che lo stesso giovane Trudeau si sia coperto di ridicolo da sé sulla scena internazionale. Le sue esibizioni da “Mister Dress-up” in India e altrove hanno fatto notizia, e lui è diventato un bersaglio della satira internazionale. A essere onesti, non poteva evitarlo. In quanto vittima dell’arroganza caratteristica della sua generazione – uno stridore morale fatto di aria fritta –, non è capace di farsi consigliare. Fa quello che sente giusto per sé, e quando va tutto male, resta sinceramente confuso. Non mi stupirebbe se i miei compagni canadesi lo spennassero alle prossime elezioni generali, solo per mettere fine alla sofferenza.
Poiché questo è un altro lato del Canada che non ci si immaginerebbe mai. Noi siamo segretamente, in maggioranza, quasi capaci di intendere e di volere. Possiamo fare cose stupide (come eleggere i liberali, a livello federale o provinciale) ma tendiamo ad accorgerci quando ci presentano il conto. Perseguire schemi grotteschi di ingegneria sociale e ambientale costa molto denaro, non solo sotto forma di tasse dirette, ma anche indirettamente attraverso il massacro commerciale. E quando iniziamo ad accorgercene, ci corrucciamo come qualunque borghese afflitto. In più il Canada ha lo scrutinio segreto. Potremmo votare per un partito meno progressista e nessuno verrebbe mai a saperlo.
Tenete d’occhio l’Ontario
Il test sarà nella provincia dell’Ontario, dove lo stesso Partito liberale (ramo provinciale) ha accumulato debiti proporzionalmente maggiori di quelli della California, e in modo assai simile. Il loro ultimo premier provinciale è sparito sotto un nuvolone di sospetti di frode ed è stato sostituito da Kathleen Wynne, una lesbica alla scandinava molto progressista. Ha portato l’Ontario al limite estremo della “gender revolution” con lezioni di riorientamento sessuale a partire dai cinque anni di età. (L’uomo che ha ideato questo programma sta ora scontando una condanna per molestie su minori). Ha lastricato di pale eoliche la sua via verso un rincaro abbastanza allarmante delle bollette elettriche di tutti. E ha fatto molto altro. Vedo che i suoi indici di approvazione sono una minima frazione di quelli del presidente Trump. E abbiamo un’elezione provinciale a giugno.
Seguitela. Mi aspetto che Wynne venga massacrata dall’opposizione dei conservatori, il cui nuovo leader naturalmente è detestato dai nostri media liberal. Ma potrebbero non avere abbastanza tempo per calunniarlo a dovere. Il leader, Doug Ford, è il fratello dell’indimenticabile Rob Ford, l’illustre sindaco di Toronto dei festini a base di crack, che conquistò la città con il carisma del tagliatore di tasse. Doug era il cervello che stava dietro il defunto Rob; gli manca il carisma, ma è probabile che non ne abbia nemmeno bisogno nelle circostanze attuali.
Tuttavia, è solo un contrattempo. Quando i media avranno finito con Ford, dopo uno o due mandati, la Generazione X e i suoi successori saranno ancora lì. È demograficamente inevitabile.
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L’Europa, come ha osservato un nostro ex primo ministro, soffre di eccesso di storia; il Canada di eccesso di geografia. Era un’osservazione acuta, che prefigurava un altro dato di fatto. Dalla cima della torre di comunicazione più alta di Toronto, se il cielo è sereno, si può vedere quasi un terzo dei terreni agricoli del Canada – adesso interamente ricoperto di sobborghi. C’è un sacco di “natura” in Canada, che sarà meno arabile finché non si scioglierà il permafrost. Ma lungo la nostra striscia abitabile, sta diventando quasi affollata. Perfino i quartieri delle villette somigliano a distese urbane. Non è vita della città, bensì piuttosto conurbazione: c’è poco che faccia da centro qui, a parte i grattacieli e gli appartamenti di lusso a downtown, dove i canadesi civilizzati, che non hanno mai conosciuto i loro vicini, non fanno neanche un figlio.
La loro conoscenza di ciò che sta fuori dalla loro bolla viene esclusivamente dall’interno; le loro escursioni all’esterno sono strettamente ricreative; non hanno connessioni con il mondo esterno né, dopo la disgregazione della vita familiare, con l’esperienza delle altre generazioni. Come elettori, possono decidere solo in base a quel che vedono, confezionato con cura per loro dai media progressisti. Non stupisce che i partiti progressisti detengano, più o meno ovunque, un quasi monopolio sul voto “urbano”, perché non c’è nulla che competa con la comunicazione progressista, rafforzata dai moderni metodi di controllo della massa.
Ecco un’altra dimensione del fenomeno post-moderno, più grave in Canada che altrove perché in proporzione siamo più urbani. Possiamo sembrare un paese vuoto, dallo spazio, ma la stragrande maggioranze del “popolo” è incolonnata nel labirinto delle superstrade. Spende gran parte della propria vita in ingorghi, tamburellando su iPhone dentro gabbie di metallo. Dire che siano degli sradicati – una parola più gentile di “zombie” – sarebbe appropriato. Ma è peggio di così, poiché dall’interno del loro spazio virtuale perdono i preziosi collegamenti mentali tra causa ed effetto. Votano liberal non per cattiveria, ma perché sono intellettualmente disabili.
In trappola, ma al calduccio
I canadesi dunque si ritrovano all’avanguardia di qualcosa che sta accadendo in tutto l’Occidente, e a dire il vero in tutto il mondo. Non usciamo perché fuori fa freddo. Il canadese medio, anche più dell’italiano medio, per dire, è intrappolato in un’interiorità con riscaldamento centralizzato. Viviamo sempre più dentro i nostri computer. In un senso più ampio, cosmico, la reclusione ci sta facendo impazzire. Ma da questo non consegue alcun impeto rivoluzionario. Abbiamo fatto tutti molta strada, dal 1968. C’è piuttosto una disconnessione crescente dalla realtà in tutte le sue forme umane. Il Canada sarà pure un po’ più disconnesso, ma la direzione in cui ci stiamo muovendo a partire dall’orbita precedente è la medesima. Ci illudiamo di essere alla testa di una rivoluzione sociale, mentre in realtà siamo in mezzo al nulla, e stiamo semplicemente assistendo alla nostra dissoluzione sociale.
Ora, metteteci anche l’evaporazione del cristianesimo ed emergerà una difficoltà ulteriore. Siamo privi dei mezzi morali e spirituali per riprenderci.
David Warren – scrittore e giornalista canadese
Tempi.it, 26 aprile 2018