Come dice Giuliano Ferrara, «in Italia le eccellenze sono mediocri». L’università italiana, luogo di eccellenza della cultura e della scienza nazionale, è scarsamente competitiva a livello internazionale, in quanto la sua eccellenza, quando esiste, è obsoleta: ovvero ci sono centri altamente qualificati, ma distribuiti in modo disomogeneo e apparentemente casuale. Dove c’è qualcosa, manca sempre qualcos’altro e quello che manca sembra di più di quello che c’è. L’indicatore evidente di questa situazione è la quota risibile, rispetto ai paesi con cui ci confrontiamo, di studenti e ancor più di docenti e ricercatori stranieri. Adesso si sta spingendo molto, soprattutto a medicina e nei politecnici, per corsi di laurea in inglese, che quindi siano più attrattivi per i giovani di altre nazioni. I risultati di iscrizione sono modesti e più che altro provenienti da paesi con sviluppo inferiore al nostro. D’altra parte è giusto così. Perché un ragazzo inglese, francese, tedesco, americano dovrebbe venire a studiare in Italia e un professore a ricercare e insegnare? Al di là di interessi particolari, riferiti soprattutto all’arte e agli aspetti più classici delle discipline umanistiche, potrebbe imparare e scoprire ben poco rispetto al proprio paese. Poiché l’università è la più avanzata organizzazione di produzione e trasmissione del sapere, il futuro e già il presente del nostro paese è di dipendenza culturale e tecnologica.
Il problema non è ovviamente solo interno al sistema di istruzione superiore, è di tutta la società, ma di questo vedremo di riuscire a parlare più avanti. Vale la pena di fare una sola nota: in Italia si è imposta l’ideologia utopica per cui tutto deve essere ugualmente possibile per tutti; così, volendo garantire tutto a tutti, si è realizzata la condizione del socialismo reale di servizi goduti da tutti, ma di livello insoddisfacente e a volte infimo.
Cercando di adattare il sistema universitario italiano agli standard internazionali, in particolare di ispirazione anglosassone, giusto vent’anni fa vennero introdotte una serie di riforme, che avrebbero tra l’altro dovuto rendere la preparazione degli studenti e i titoli raggiunti più adeguati alle esigenze della società e del lavoro. Il percorso formativo è stato spezzato in due tronconi: il primo di tre anni dovrebbe fornire una formazione più professionale, denominata laurea breve o di primo livello; il secondo dovrebbe fornire la tradizionale formazione dottorale, denominata prima laurea specialistica, poi – meglio – magistrale. Sono stati quindi introdotti corsi di master, con caratteristiche alquanto ampie e a volte confuse, e di dottorato di ricerca, soprattutto destinati a coloro che vogliono fare carriera accademica. Scopo proclamato della riforma è l’abbreviamento della permanenza in università per la maggior parte degli studenti, che, fermandosi ai primi tre anni, troverebbero uno studio meno complesso, con obiettivi più facilmente perseguibili e concreti da un punto di vista professionale. I risultati delle riforme non sono stati gran che: la disoccupazione giovanile ha continuato a progredire soprattutto al Sud; la percentuale di giovani con istruzione universitaria è tra le più basse d’Europa; l’inserimento dei giovani nella università continua a essere difficoltoso, così che abbiamo una classe docente tra le più vecchie del mondo.
In effetti, con l’ipocrisia e la faciloneria che ormai ci distinguono, vi sono una serie di cose non dette, soprattutto agli studenti, cui viene promesso di diventare tutti, senza sforzo, dottori. Siamo, credo, l’unico paese con tre tipi di dottori: il dottore breve, quello tradizionale da laurea quinquennale, quello più avanzato di ricerca. Tutti possono fregiarsi orgogliosamente del titolo, senza disparità. Provo, allora, a sottolineare qualche differenza.
Le cose non dette
Il primo triennio di università non può corrispondere a una laurea in senso tradizionale. È un corso di formazione superiore, professionalizzante a completamento della scuola media superiore, o preparatorio a studi successivi, come avviene per i college negli Stati Uniti. Il biennio successivo pure non può corrispondere al dottorato, che oggi richiede standard di apprendimento e impegno assai superiori, ma a quello che all’estero è conosciuto come master, ovvero specializzazione, sempre professionale nella sostanza. La laurea, il “vero” dottorato, secondo la nuova impostazione introdotta, può essere solo quello che è conosciuto come dottorato di ricerca, conseguito dopo la laurea magistrale o il master e destinato in genere alla permanenza in università o in altri centri di ricerca e al lavoro professionale altamente qualificato. A livello del master e soprattutto del dottorato si ricostituisce la tradizionale formazione universitaria con le sue caratteristiche di elitarietà. Teniamo presente che per quanto possiamo ammirare gli inglesi e gli americani, l’università l’abbiamo inventata noi e non loro. L’uni-versitas è intesa a produrre una conoscenza unitaria – verso l’uno – per la quale il dottore è capace di risalire dalla considerazione del particolare al tutto, e quindi di insegnare e procedere nella ricerca del vero.
Le cose non dette non riguardano solo la precisione delle definizioni, ma la mancanza di decisione e prospettiva a riguardo del preteso rinnovamento dell’università, che se rimane come è, e probabilmente anche con aggiustamenti futuri, rappresenta il ben noto “cambiare tutto per non cambiare nulla”. La riforma se vuole progredire e diventare “vera” deve infatti tenere conto della necessità di alcuni provvedimenti sostanziali. In primo luogo tutte le università e i corsi debbono fissare un numero chiuso, con selezione degli ingressi: come ho scritto nella puntata precedente, il primo compito di una scuola è dichiarare quanti studenti può formare, altrimenti inganna gravemente coloro che ad essa si rivolgono. In secondo luogo la tassazione per l’accesso ai livelli di formazione superiore (master e dottorato) deve aumentare sensibilmente, in modo da coprire in termini significativi le spese dell’istruzione e dell’addestramento; il problema del diritto allo studio va risolto con altri mezzi: borse per i capaci e meritevoli, prestiti d’onore, riconoscimento della possibilità di lavorare (soprattutto per i master formazione a distanza e utilizzo dei weekend). In terzo luogo bisogna in qualche modo rivedere il valore legale dei titoli di studio: non tutte le università sono uguali, dal punto di vista della qualità e della quantità delle risorse; non tutte quindi sono in grado di offrire lo stesso livello di qualificazione, in particolare per master e dottorati. In quarto e ultimo luogo bisogna contenere – non ridurre eccessivamente o abolire perché sono essenziali per difendere la libertà di insegnamento da possibili ingerenze politiche ed economiche – il numero di professori e ricercatori a vita, favorendo una molteplicità di contratti a tempo determinato, che stimolino la competitività e la mobilità tra gli atenei non solo italiani.
Il posto fisso non si scorda mai
Le cose qui dette hanno conseguenze rilevanti, che sfidano il conservatorismo di docenti e studenti, i quali sono poi quelli che debbono effettivamente volere una nuova università. Purtroppo la tendenza prevalente delle università, giustificata dalla proclamazione di princìpi egualitari di diritto allo studio, è quella di accaparrarsi gli studenti, offrendo tutto e di più, con la ovvia complicità degli studenti stessi. Il numero degli studenti e le ore di insegnamento richieste continuano a essere un criterio principale nella distribuzione dei fondi e dei posti di docente da parte dello Stato, finanziatore e programmatore praticamente unico degli atenei pubblici. Gli atenei privati riconosciuti sono anch’essi sottoposti alle regole statali, ma, fatte salve rare eccezioni, essendo per lo più “nascenti” e con una amministrazione molto più rapida ed efficiente, sono assai più liberi e agili nell’applicazione.
Negli ultimi anni sono stati introdotti criteri di merito per il finanziamento e lo sviluppo delle università, valutando gli esiti della ricerca, i titoli e la qualificazione internazionale dei docenti. Non sono mutamenti giganteschi, ma, all’italiana, condotti con stile rigidamente centralistico, ovvero con valutazioni e abilitazioni nazionali, che costituiscono la base dei concorsi per i posti e delle quote (relativamente piccole) di finanziamento variabile con il merito. Quello che colpisce è che i docenti italiani, i quali in grandissima parte hanno svolto soggiorni di ricerca e formazione in celebrate università estere, tornati in Italia è come se si dimenticassero quello che hanno visto: stipendi all’inizio non eccezionali per lavori rigorosamente a tempo determinato; pochi posti concessi a vita; promozioni regolate dal merito, valutato dai responsabili del dipartimento o dell’ateneo, senza concorsi e ricorsi; obbedienza, nel lavoro ovviamente, ai responsabili di cui sopra che comandano effettivamente; atenei condotti da organi non eletti e quindi non determinati dal personale dipendente. Quando i ricercatori italiani rientrano, diventano a favore del posto fisso, delle regole più rigide per l’assunzione, per l’autonomia della attività di ricerca, per la democrazia più assoluta nella nomina dei dirigenti e nella decisione a riguardo dei posti. Si fanno Consigli di dipartimento (già di facoltà) con centinaia di persone, in cui si discute di tutto (e soprattutto dei posti), magari a più ondate, per ore, in forme di processi popolari. Ciò che vale, di fatto, sono gli interessi particolari, corporativi e di gruppo, rivendicati naturalmente in nome di un cambiamento, del quale però si vede poco o nulla. Gli studenti si comportano, spero più ingenuamente, allo stesso modo.
Ma la speranza è l’ultima a morire.
Giancarlo Cesana
Tempi.it, 30 aprile 2018