Una ricerca olandese mostra come produrre in laboratorio un nuovo essere vivente usando cellule embrionali. Esperimenti sui topo, ma il passo verso l’uomo potrebbe non essere lontano.
L’essere umano può essere concepito in laboratorio senza utilizzare gameti maschili e femminili? La rivista «Nature» mostra che sarebbe possibile ricorrendo a cellule staminali debitamente riprogrammate per diventare cellule riproduttive. L’esperimento è stato effettuato sui topi e ha dato vita a un quasi-embrione che però non si è sviluppato sino alla maturità, e tantomeno dunque ha dato vita a una gravidanza e alla nascita di un topolino “figlio delle staminali”.
Pubblicato dalla rivista scientifica «Nature», il lavoro di ricerca arriva dall’Olanda ed è firmato dall’équipe dell’Institute for Technology-Inspired Regenerative Medicine della Maastricht University guidato da Nicolas Rivron. I ricercatori hanno prelevato cellule da un embrione di topo di 3-5 giorni concentrandosi su quelle destinate a dar vita alla placenta. La combinazione di queste cellule embrionali fatte interagire in vitro ha dato luogo a strutture che non sono né una blastocisti né un embrione e che per questo sono state definite «blastoidi». L’obiettivo dichiarato è di far luce sul processo molecolare e genetico che regola i meccanismi nei momenti iniziali della vita. Ma cosa stanno cercando gli scienziati, e perché manipolano embrioni (sinora solo di topo) per generare nuove e sinora sconosciute forme di vita, alle quali infatti è stato dato un nome nuovo?
La sperimentazione sulla vita non conosce limiti. Non è difficile immaginare infatti che, una volta acquisita sufficiente sicurezza sui modelli animali, si passerà ai test sugli embrioni umani, col prevedibile risultato di mettere in moto un meccanismo biologico del quale non si conosce il possibile esito. La forma vivente che prende vita tra le mani di uno scienziato che segue l’idea della combinazione di cellule per creare qualcosa di radicalmente nuovo è una manipolazione senza nome e status naturale sulla materia vivente, una sperimentazione del tutto sproporzionata rispetto a qualunque obiettivo di conoscenza si voglia conseguire. L’ipotesi del «blastoide» che evolve in «umanoide» non è affatto remota, e svela qual è l’ambizione con la quale viene divelto ogni possibile interrogativo etico: ottenere esseri viventi creati in laboratorio dall’inizio alla fine, forme di vita che sono il parto integrale della scienza, sue opere messe in movimento per essere osservate sotto il microscopio ma che non possono lasciare del tutto certi del fatto che non le si voglia osservare, presto o tardi, anche nel mondo reale, giunte alla conclusione di una gravidanza e fatte nascere, qualunque cosa siano.
Questi “figli della scienza” senza padre né madre possono costituire un prodotto allettante per chi vagheggia un’umanità a disposizione della scienza o di altri obiettivi solo immaginabili. Ma per ottenere questa specie umana di sintesi (non a caso le agenzie di stampa parlano, a sproposito, di «embrioni artificiali», in realtà ottenuti con cellule che artificiali non sono) occorrerebbe una cosa sola: far evolvere un embrione di uomo così concepito fino a quando viene al mondo. Una prospettiva che nessuno si sentirebbe di sottoscrivere, ma alla quale certamente qualcuno con ogni evidenza sta pensando. Se è così, lo dica apertamente e si sottoponga al confronto sotto gli occhi dell’opinione pubblica: si parla della nostra comune umanità, sarebbe il caso di consentire a tutti di sapere cosa si cerca di farne.
Alle domande che si aprono su questo fronte ne va premessa una, fondamentale: perché bisogna avventurarsi in questo percorso? Solo per verificare la realizzabilità di una procedura? Suonano attualissime e del tutto pertinenti le parole di papa Francesco il 28 aprile a un congresso internazionale sulla medicina riparativa: «Mentre la Chiesa elogia ogni sforzo di ricerca e di applicazione volto alla cura delle persone sofferenti, ricorda anche che uno dei principi fondamentali è che “non tutto ciò che è tecnicamente possibile o fattibile è per ciò stesso eticamente accettabile”. La scienza, come qualsiasi altra attività umana, sa di avere dei limiti da rispettare per il bene dell’umanità stessa, e necessita di un senso di responsabilità etica. La vera misura del progresso, come ricordava il beato Paolo VI, è quello che mira al bene di ogni uomo e di tutto l’uomo». Dov’è il «bene di ogni uomo e di tutto l’uomo» nella nuova forma di vita figlia della provetta?
Francesco Ognibene
Avvenire.it, 2 maggio 2018