Il primario dell’ex Ospedale Psichiatrico di Voghera ci ha raccontato cosa successe quarant’anni fa con l’approvazione della Legge BasagliaIl 13 maggio è l’anniversario di una rivoluzione epocale, quella sancita dalla Legge 180—meglio nota come Legge Basaglia dal nome del suo promotore Franco Basaglia, l’uomo a cui si deve la riforma psichiatrica in Italia. La Legge Basaglia segnò nelle intenzioni (perché poi il processo fu lungo) la fine dell’internamento obbligatorio, chiudendo definitivamente l’era della segregazione dei malati psichici.
Sono nata a Voghera, come la Coccoina e Valentino Garavani. Eppure quando dico di dove sono, moltissimi mi rispondono citando la casalinga di Voghera o il manicomio. In effetti, la mia città è anche conosciuta come la città delle tre “p”, che stanno per “pazzi, puttane e peperoni,” e fino agli anni Settanta è stata definita “l’Amsterdam della Bassa Padania.”
Ora, i tempi sono cambiati: le vetrine dove le prostitute stavano in mostra hanno tirato giù la saracinesca e il manicomio ha chiuso i battenti. Ma per chi ha vissuto a Voghera resta la memoria. Non c’è vogherese che non ricordi con affetto Linda, una delle pazienti dell’istituto psichiatrico: nell’ultima immagine che ho di lei è con il suo costume da bagno a fiori sul trampolino della piscina comunale di Voghera, pronta a lanciarsi in uno dei suoi tuffi a bomba.
In occasione dell’anniversario della legge ho intervistato una persona che ha vissuto in prima linea la riforma psichiatrica: il dottor Dino Sforzini, l’ultimo primario dell’Ospedale Psichiatrico di Voghera che ha avuto il compito di chiudere (o meglio, aprire) definitivamente il cancello che separava Linda dal resto del mondo.
Il 13 maggio 1978 ricopriva il ruolo di primario dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Voghera. Cosa ha significato per lei quella data?
Dino Sforzini: La ricorderò finché campo. Ero preoccupato perché da quel momento in poi non sarebbe stato più possibile ricoverare nell’Ospedale Psichiatrico chi era affetto da
disturbi psichici. Si potevano ricoverare i malati solamente all’interno dell’Ospedale Civile di Voghera, dove abbiamo trovato un’accoglienza non certo entusiastica, anzi: quattro posti letto in un sottoscala. Io ero tenuto per legge a ricoverare lì i pazienti in caso di Trattamento Sanitario Obbligatorio. Ho perso parecchie notti per le preoccupazioni di questo cambiamento epocale che tuttavia condivido senza nessun rimpianto.
Però come spesso accade in Italia si fa prima la legge, poi per gli strumenti si vedrà.
Ci racconti del suo primo periodo da primario all’Ospedale Psichiatrico di Voghera.
Ho incominciato a frequentare l’Ospedale Psichiatrico di Voghera nel 1964, allora c’erano circa 1200 malati. Era un paese, una cittadina del tutto autonoma. C’erano i calzolai, i parrucchieri… mancava solo il panettiere. Era una piccola enclave, molto chiusa anche perché allora c’era in vigore la legge del 1904 che recitava “devono essere ricoverate in manicomio le persone che non sono in grado di accudire se stesse, pericolose per sé o per gli altri o comunque di pubblico scandalo.” Il pubblico scandalo era una cosa molto soggettiva. Faccio sempre l’esempio dell’ubriaco: in un paesino di montagna il beone che faceva un po’ di numeri era tollerato, mentre se lo stesso ubriaco si trovava in piazza Duomo a Milano veniva blindato e portato in manicomio.
Quando ci sono state le prime avvisaglie di quel cambiamento che la legge Basaglia ha sancito?
Nel ’68 c’è stato il primo passo: un emendamento della legge sulla psichiatria, il famoso Articolo 4, in cui si riconosceva al malato la possibilità di richiedere autonomamente un ricovero in manicomio.
Cosa succedeva a chi entrava per volontà propria?
Esattamente quello che accadeva a un paziente costretto dalla legge: veniva trattenuto nel Reparto Osservazione per 28 giorni, passati i quali il medico emetteva la sua diagnosi. A quel punto veniva dimesso oppure constatato malato di mente, perdendo i diritti civili e politici. Praticamente diventava un numero, non poteva più votare, fare testamento… niente di niente.
L’effettivo suo ultimo giorno da primario dell’Ospedale Psichiatrico di Voghera è stato invece di molto successivo alla data d’approvazione della legge: il manicomio di Voghera ha chiuso nel 1998, ossia vent’anni dopo la Legge Basaglia. Cosa è successo in quell’arco di tempo?
In quegli anni abbiamo preso contatti con le famiglie dei pazienti, con le amministrazioni comunali e con alcune strutture per trasferire gli ospiti che erano da noi da tanto tempo, quelli più anziani con psicosi residuali che ormai non avevano più grosse valenze dal punto di vista sintomatologico e quindi potevano essere reintegrate. Quando riuscivamo a reinserire qualcuno in famiglia, due volte la settimana andavamo a vedere come stava. Ne abbiamo dimessi parecchi, e nel giro di vent’anni l’Ospedale Psichiatrico si è totalmente svuotato. Negli ultimi anni abbiamo creato la Comunità Ospiti, che era autonoma e si gestiva da sola. Due ospiti si sono perfino sposati!
La legge 180 è stata l’acme di una presa di coscienza che ha portato a considerare finalmente l’ammalato psichico come un ammalato specialistico. Prima di allora il viale di ingresso del nostro Ospedale Psichiatrico era chiamato “il Viale della Vergogna”: la domenica i parenti venivano a trovare i propri cari e percorrevano quel viale con un profondo senso di vergogna che gli si leggeva chiaramente in faccia, era straziante. Inoltre la legge ha segnato la fine dell’istituzionalizzazione: un tempo chi entrava in manicomio poteva poi uscirne solo nella cassa da morto.
Un ergastolo, insomma.
E pensa che fino agli anni Sessanta c’era ancora il reparto Sudici, ossia quelli che “peccavano” di sporcizia e non erano in grado di mantenersi puliti e decorosi.
Nella prefazione al libro sul manicomio Oltre il cancello… Voghera, lei scrive: “Una parte dell’opinione pubblica auspica un ritorno a una psichiatria segregante.” Perché alcuni vorrebbero ripristinare un’istituzione come il manicomio?
Credo che questi rigurgiti siano fuori luogo e fuori tempo, ma purtroppo ci sono. Spesso gli
atteggiamenti di chi è favorevole a un ripristino del manicomio vengono motivati dalla paura che i malati psichici possano essere un pericolo per la società. Tuttavia è stato dimostrato da studi epidemiologici che i delitti provocati da malati psichici sono nettamente inferiori e non significativi rispetto al numero totale.
Molti detenuti che stanno per essere rilasciati soffrono di una forte ansia, una sorta di paura all’idea di tornare nella società da uomini liberi. Dopo l’approvazione della legge Basaglia è accaduto qualcosa di simile ai suoi pazienti?
Direi di sì, tanto che sono stati registrati anche casi di suicidio. Proprio per l’incapacità e l’inadeguatezza a ristabilire un contatto con una realtà che avevano dimenticato. Forse vivevano ancora in una situazione di isolamento così profondamente radicata che in alcuni casi sono stati spinti a commettere un gesto estremo.
Com’era la vita all’interno dell’istituto psichiatrico. Come si svolgeva la giornata tipo?
Era cadenzata da orari fissi. Ci si alzava sempre alla stessa ora, si faceva colazione, pranzo e cena tassativamente alla stessa ora. Quando i pazienti non mangiavano giravano attorno a un tavolo, mentre d’estate camminavano nei cortili. Alle 17 le infermiere incominciavano a metterli a letto, così presto perché dovevano legarli uno a uno, fissandoli al letto con fascette ad altezza polsi e caviglie da cucire direttamente al materasso. Negli ultimi anni invece usavamo la cosiddetta “camicia di forza chimica”, ossia degli psicofarmaci che li sedavano profondamente.
Ci sono trattamenti tra quelli che utilizzavate che ora non sono più considerati efficaci?
Certamente. Adesso non si fa più l’elettroshock, né il coma diabetico. Per il coma diabetico iniettavamo dosi di insulina fino a che il paziente non entrava in coma diabetico, poi lo risvegliavamo con iniezioni di glucosio. C’era anche la piretoterapia: si facevano iniezioni di latte nei glutei che formavano ascessi per provocare febbri altissime; si pensava che la febbre potesse in qualche modo agire sul sistema nervoso centrale. Nel nostro Ospedale Psichiatrico c’erano anche le cosiddette Rotonde, zone semicircolari con pareti curve, senza spigoli, in cui gli aggressivi venivano rinchiusi per diversi giorni, finché non si calmavano. Era un trattamento oserei dire più che carcerario: disumano.
Nel ‘75, a seguito della messa in discussione di tutta l’organizzazione assistenziale manicomiale, abbiamo chiuso definitivamente le Rotonde. In quegli anni ci sono stati tanti
cambiamenti che hanno portato poi alla rivoluzione totale. Abbiamo smesso con il trattamento di isolamento e introdotto per la prima volta due posate che fino ad allora i malati non avevano mai maneggiato: il coltello e la forchetta. Prima mangiavano solamente con il cucchiaio, per limitarne la potenziale pericolosità. E nelle foto d’archivio hai mai fatto caso a come gli uomini si tenevano sempre i pantaloni con le mani? Perché anche le cinture erano bandite, considerate pericolose per la loro incolumità e quella altrui.
Gli accorgimenti che adottavate diminuivano effettivamente gli episodi di aggressività?
In realtà ci siamo poi accorti che uno dei motivi principali che facevano scattare l’aggressività all’interno del manicomio era la mancanza di spazio. In uno stanzone di 100 metri quadrati erano ammassati 100 pazienti che giravano no stop intorno a un tavolo. Bastava che uno urtasse per sbaglio un altro e si scatenava il finimondo, con risse ed episodi di vera e propria furia. Abbiamo finalmente capito che era necessario fornire spazi adeguati. Non parlo solo di metratura: negli ultimi anni abbiamo aperto un bar gestito dai pazienti, dei laboratori teatrali e la redazione di un giornalino, composta da malati e infermieri. Abbiamo incominciato ad aprirci verso l’esterno, a smettere di essere un ghetto chiuso e ad accogliere la società che stava fuori.
Una serata mitica è stata quella in cui nel 1974 ha suonato Giorgio Gaber. Per assistere al concerto, la gente “normale” è entrata per la prima volta in manicomio, rendendosi conto che non c’erano le belve, come molti credevano, ma persone con le loro sofferenze. Un passo rivoluzionario è stato anche quello di riunire gli ammalati a prescindere dal sesso, maschi e femmine assieme. Erano gli anni Settanta e li abbiamo suddivisi secondo le zone geografiche di provenienza, per farli sentire più a casa.
Ritornando con la memoria a varcare quel cancello, qual è il ricordo che per primo le riaffiora?
[Commosso] Una volta, una donna che era ricoverata lì e che nel suo delirio mi considerava come suo figlio mi ha accarezzato il volto e ha detto, “Ho fatto tanto lavorare per farti arrivare dove sei”.
Camilla Sernagiotto
www.vice.com, 13 maggio 2018